50.mo morte JFK. Giovagnoli: interpretò un’epoca, dando speranza a una generazione
Un “crimine ignobile” che “ci lascia profondamente scioccati”. Con queste parole,
Paolo VI accoglieva la notizia dell’uccisione a Dallas del presidente americano John
F. Kennedy, il 22 novembre di 50 anni fa. Nelle parole di Papa Montini - che aveva
incontrato Kennedy il 2 luglio del ’63 - sono sintetizzati i sentimenti prevalenti
in tutto il mondo subito dopo la tragica morte di JFK. “Questo – ha affermato, dal
canto suo, Barack Obama – è il giorno in cui celebrare l'impronta indelebile di Kennedy
sulla nostra storia”. Il presidente Usa, che martedì aveva deposto una corona di fiori
alla tomba di Kennedy ad Arlington, non è stato tuttavia alla commemorazione in programma
ieri a Dallas. A mezzo secolo di distanza, nonostante il giudizio contrastante degli
storici sulla sua amministrazione, Kennedy resta un esempio di leadership carismatica
capace di generare speranza al di là dei confini della politica. Sul significato che
assunse all’epoca l’uccisione di Kennedy e l’attualità della sua figura, Alessandro
Gisotti ha intervistato il prof. Agostino Giovagnoli, docente di Storia
Contemporanea all’Università Cattolica di Milano:
R. – È stato
il primo presidente cattolico degli Stati Uniti e questo aveva costituito una sorta
di grande novità, di grande speranza, di grande attesa per i cattolici di tutto il
mondo. Paolo VI, che aveva incontrato Kennedy pochi mesi prima, rimase profondamente
turbato da questo evento che sembrava in qualche modo incrinare quelle speranze dei
primi anni ’60, all’interno dei quali si colloca anche l’elezione dello stesso Paolo
VI e le speranza che hanno accompagnato l’inizio del suo Pontificato.
D. –
Questo anche perché Giovanni XXIII, come poi Paolo VI, guardavano con simpatia all’azione
dell’amministrazione Kennedy rispetto ai diritti civili dei neri. Lo stesso Paolo
VI lo aveva detto, nel discorso a Kennedy, il 2 luglio del ‘63…
R. – Certamente.
Proprio in un discorso del giugno ’63, pochi giorni prima di incontrare Paolo VI,
Kennedy pronunciò un discorso molto importante sugli studenti neri dell’Alabama che
erano stati esclusi dall’università. Fece un radiomessaggio nazionale, molto forte
e molto incisivo, in difesa del diritto di questi ragazzi di iscriversi all’università.
Si è criticato Kennedy perché è stato “uomo di parola e poco di fatti”, ma - a parte
la brevità della sua presidenza - credo che bisogna rivalutare le parole, perché ci
sono parole che sono più importanti dei fatti! Kennedy è stato un uomo che ha saputo
dire parole importanti per interpretare le attese, le speranze e la volontà di cambiamento
del mondo proprio nel suo tempo.
D. – Poi, ovviamente, c’è quella stagione
breve, intensa e drammatica della crisi di Cuba, con questo rapporto a distanza con
Giovanni XXIII, che per altro voleva ricevere Kennedy nel luglio del ’63 ma morì a
giugno e ci fu il Conclave in mezzo... Fu regalata a Kennedy la Pacem in terris
autografata da Papa Roncalli. Questo dono post mortem commosse anche molto
lo stesso Kenney…
R. – Non c’è dubbio. La Pacem in terris è strettamente
legata all’evento di Cuba. L’idea di scrivere un’Enciclica interamente dedicata al
tema della pace nasce proprio dalla crisi di Cuba. E a questa crisi il Papa non fu
estraneo: Giovanni XXIII fu coinvolto in quella crisi, fu coinvolto pubblicamente
e le parole che egli disse per la pace sono note. Fu coinvolto anche per via diplomatica,
perché proprio a nome di Kennedy fu contattata la Segreteria di Stato, e fu sollecitato
l’intervento del Papa e quell’intervento ci fu. Dunque, forse, dobbiamo anche a Giovanni
XXIII se poi la guerra non è scoppiata durante la crisi di Cuba. Credo che Kennedy
fosse grato al Papa per questo suo intervento.
D. – Man mano che passano gli
anni, escono documenti e le valutazioni degli storici si fa a volte più severo nei
confronti dell’amministrazione Kennedy, anche se ovviamente il giudizio rimane sempre
incompleto perché è una vita “incompiuta”, quindi anche politicamente “incompiuta”.
Tuttavia, il mito, l’immagine di John Kennedy resta quasi intoccabile, intangibile
nonostante revisionismi, scandali… Perché secondo lei?
R. – Perché credo che
effettivamente Kennedy abbia rappresentato la voce della speranza. Non è solo merito
suo, ovviamente… Ha però saputo interpretare un’epoca, un’attesa, una volontà di cambiamento
che era molto forte. Naturalmente, il bilancio della presidenza Kennedy presenta luci
ed ombre, ma questo è normale. Qualunque vicenda politica presenta luci ed ombre.
Piuttosto, oggi vedo in atto un tentativo “minimalista” che è quello di banalizzare
tutto: per cui non si parla tanto di Kennedy come uomo politico, ma della sua vita
privata, i gossip… E’ un minimalismo che rispecchia un po’ i nostri tempi, tempi “avari
di visioni” come diceva Giovanni Paolo II. Per questo, credo che ci faccia bene ricordare
Kennedy, non per farne un mito ma per ricordare che si può anche non essere minimalisti
ed avere grandi visioni.