2013-11-20 16:41:54

Benedettine Camaldolesi in attesa del Papa. L'abbadessa: claustrali dentro la storia dei nostri giorni


Nella Giornata delle Claustrali, dedicata a tutte le comunità di clausura, Papa Francesco si reca al Monastero di Sant’Antonio Abate delle Monache Benedettine Camaldolesi, situato sul colle Aventino a Roma. La visita inizia alle 17, durerà circa un'ora, e comprenderà una sosta di preghiera con le monache ed un colloquio privato con la comunità. Ma quale clima si respira nel Convento alla vigilia di questo evento carico di attese? Roberta Gisotti lo ha chiesto all’abbadessa, madre Michela Porcellato:RealAudioMP3

R. – E’ il clima di ogni giorno, ritmato dalla preghiera e dal lavoro, ma certamente c’è qualcosa in più: questa gioiosa attesa di un evento che è arrivato come di sorpresa.

D. – C’è qualche iniziativa particolare che avete in programma?

R. – L’iniziativa che abbiamo messo in programma in questo tempo è proprio di intensificare di più la nostra preghiera, il nostro raccoglimento, per gustare questo momento di gioia.

D. – Madre Michela, la vita di clausura in ogni epoca è stata vista come una scelta radicale, a volte incomprensibile perfino per i credenti. Come vi rapportate, oggi, con il mondo fuori dalle mura del vostro convento, in tempi – dobbiamo dire – di grande, ricercata visibilità attraverso i media, di ogni attività umana?

R. – Devo dire che il concetto di clausura dopo il Concilio è stato anche cambiato secondo le Costituzioni di ciascun monastero. Certamente ci sono separazioni più forti rispetto al mondo esterno, e separazioni più interiori. Il concetto di clausura riguarda la custodia del cuore, particolarmente, e quindi noi abbiamo ritenuto che fosse stato necessario, in questi anni, anche un aggiornamento sulla clausura del nostro monastero, pur mantenendo saldi i valori fondamentali del significato della clausura, della separazione. Quindi, non per essere fuori dal mondo ma per essere maggiormente dentro la storia dei nostri giorni, proprio attraverso la custodia di se stessi, del proprio cuore, togliendo la radice del male che ci inabita con la grazia del Signore, per poter poi essere anche testimonianza di luce più autentica. Senza peraltro avere quella separazione così forte, perché pensiamo che anche un servizio del monastero all’esterno possa essere importante, come per esempio far conoscere maggiormente la Parola di Dio, accogliere gli ospiti per la preghiera liturgica, servire i poveri, accogliere i pellegrini e soprattutto, accogliere ogni necessità dell’uomo di oggi.

D. – Papa Francesco, appena salito al soglio pontificio, ha chiesto preghiere. Ecco, il valore della preghiera a volte non viene abbastanza valutato anche dalla comunità dei credenti...

R. – Bè, perché la preghiera è una realtà difficile: implica la fede. La preghiera è la radice, l’inizio, l’origine di ogni forma di annuncio del Vangelo. Non è sempre facile, perché molto spesso vogliamo esporre noi stessi piuttosto che la realtà del Regno Dio. Allora, la tradizione monastica, proprio mettendo insieme la preghiera e il lavoro e soprattutto il silenzio e la solitudine, fa capire quanto sia necessario prima di ogni iniziativa di evangelizzazione, custodire se stessi, imparare a purificare la propria vita. La luce è qualcosa che brilla da dentro, non che viene da fuori. Quindi, questa realtà di Cristo che deve essere maggiormente accolta di giorno in giorno, poi da se stessa brilla di fronte al mondo. Ecco, importante è capire che non è un cammino facile, il cammino della preghiera, perché implica una radicale spoliazione di sé. La preghiera implica l’amore, la relazione profonda con il Signore e questo ci toglie, appunto, tutto quello che può essere la nostra ombra, il nostro egoismo. Quindi la preghiera custodisce il nostro amore, la preghiera implica veramente anche un momento di fiducia, di fede profonda.

D. – Madre Michela, nel vostro convento ha vissuto suor Nazarena Crotta, che ha passato – sappiamo – 45 anni, ultima reclusa in una cella. Domani è l’anniversario della sua entrata nel monastero, il 21 novembre del 1945. Ecco, ad oltre 20 anni dalla sua morte, nel 1990, quale eredità ha lasciato questa donna, questa suora?

R. – Certamente, la sua scelta è stata una scelta radicale. L’immagine che aveva preferito della sua vita era proprio il seme, il chicco di grano caduto a terra che se non muore non porta frutto, ma il chicco rimane nascosto. Lei ha voluto essere nascosta nella sua vita ma anche dopo la sua morte, secondo il suo desiderio. Certamente, l’eredità che noi raccogliamo è la sua autenticità: per lei, ogni forma di vocazione, ogni forma di relazione con il Signore era innanzitutto un essere autentici, l’esserci con la propria verità. Per lei era anche togliere queste maschere che ci portiamo, che abbiamo dai nostri condizionamenti. E quindi, un primo valore era proprio la grande autenticità, e il secondo era questo immenso amore che lei nutriva per la Chiesa in particolare, ma per tutto il mondo: per ogni persona, per tutti coloro che soffrivano. E’ un amore vivo, non un amore formale. Io ho avuto la grazia di poterla visitare una volta e farmi dire una parola, e sono rimasta sorpresa perché da una reclusa mi aspettavo magari una parola ascetica; e invece, la parola era proprio l’amore, questa realtà, questa vocazione di ogni uomo e di ogni donna all’amore.







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