Benedettine Camaldolesi in attesa del Papa. L'abbadessa: claustrali dentro la storia
dei nostri giorni
Nella Giornata delle Claustrali, dedicata a tutte le comunità di clausura, Papa Francesco
si reca al Monastero di Sant’Antonio Abate delle Monache Benedettine Camaldolesi,
situato sul colle Aventino a Roma. La visita inizia alle 17, durerà circa un'ora,
e comprenderà una sosta di preghiera con le monache ed un colloquio privato con la
comunità. Ma quale clima si respira nel Convento alla vigilia di questo evento carico
di attese? Roberta Gisotti lo ha chiesto all’abbadessa, madre Michela Porcellato:
R. – E’ il clima
di ogni giorno, ritmato dalla preghiera e dal lavoro, ma certamente c’è qualcosa in
più: questa gioiosa attesa di un evento che è arrivato come di sorpresa.
D.
– C’è qualche iniziativa particolare che avete in programma?
R. – L’iniziativa
che abbiamo messo in programma in questo tempo è proprio di intensificare di più la
nostra preghiera, il nostro raccoglimento, per gustare questo momento di gioia.
D.
– Madre Michela, la vita di clausura in ogni epoca è stata vista come una scelta radicale,
a volte incomprensibile perfino per i credenti. Come vi rapportate, oggi, con il mondo
fuori dalle mura del vostro convento, in tempi – dobbiamo dire – di grande, ricercata
visibilità attraverso i media, di ogni attività umana?
R. – Devo dire che il
concetto di clausura dopo il Concilio è stato anche cambiato secondo le Costituzioni
di ciascun monastero. Certamente ci sono separazioni più forti rispetto al mondo esterno,
e separazioni più interiori. Il concetto di clausura riguarda la custodia del
cuore, particolarmente, e quindi noi abbiamo ritenuto che fosse stato necessario,
in questi anni, anche un aggiornamento sulla clausura del nostro monastero, pur mantenendo
saldi i valori fondamentali del significato della clausura, della separazione. Quindi,
non per essere fuori dal mondo ma per essere maggiormente dentro la storia dei nostri
giorni, proprio attraverso la custodia di se stessi, del proprio cuore, togliendo
la radice del male che ci inabita con la grazia del Signore, per poter poi essere
anche testimonianza di luce più autentica. Senza peraltro avere quella separazione
così forte, perché pensiamo che anche un servizio del monastero all’esterno possa
essere importante, come per esempio far conoscere maggiormente la Parola di Dio, accogliere
gli ospiti per la preghiera liturgica, servire i poveri, accogliere i pellegrini e
soprattutto, accogliere ogni necessità dell’uomo di oggi.
D. – Papa Francesco,
appena salito al soglio pontificio, ha chiesto preghiere. Ecco, il valore della preghiera
a volte non viene abbastanza valutato anche dalla comunità dei credenti...
R.
– Bè, perché la preghiera è una realtà difficile: implica la fede. La preghiera è
la radice, l’inizio, l’origine di ogni forma di annuncio del Vangelo. Non è sempre
facile, perché molto spesso vogliamo esporre noi stessi piuttosto che la realtà del
Regno Dio. Allora, la tradizione monastica, proprio mettendo insieme la preghiera
e il lavoro e soprattutto il silenzio e la solitudine, fa capire quanto sia necessario
prima di ogni iniziativa di evangelizzazione, custodire se stessi, imparare a purificare
la propria vita. La luce è qualcosa che brilla da dentro, non che viene da fuori.
Quindi, questa realtà di Cristo che deve essere maggiormente accolta di giorno in
giorno, poi da se stessa brilla di fronte al mondo. Ecco, importante è capire che
non è un cammino facile, il cammino della preghiera, perché implica una radicale spoliazione
di sé. La preghiera implica l’amore, la relazione profonda con il Signore e questo
ci toglie, appunto, tutto quello che può essere la nostra ombra, il nostro egoismo.
Quindi la preghiera custodisce il nostro amore, la preghiera implica veramente anche
un momento di fiducia, di fede profonda.
D. – Madre Michela, nel vostro convento
ha vissuto suor Nazarena Crotta, che ha passato – sappiamo – 45 anni, ultima reclusa
in una cella. Domani è l’anniversario della sua entrata nel monastero, il 21 novembre
del 1945. Ecco, ad oltre 20 anni dalla sua morte, nel 1990, quale eredità ha lasciato
questa donna, questa suora?
R. – Certamente, la sua scelta è stata una scelta
radicale. L’immagine che aveva preferito della sua vita era proprio il seme, il chicco
di grano caduto a terra che se non muore non porta frutto, ma il chicco rimane nascosto.
Lei ha voluto essere nascosta nella sua vita ma anche dopo la sua morte, secondo il
suo desiderio. Certamente, l’eredità che noi raccogliamo è la sua autenticità: per
lei, ogni forma di vocazione, ogni forma di relazione con il Signore era innanzitutto
un essere autentici, l’esserci con la propria verità. Per lei era anche togliere queste
maschere che ci portiamo, che abbiamo dai nostri condizionamenti. E quindi, un primo
valore era proprio la grande autenticità, e il secondo era questo immenso amore che
lei nutriva per la Chiesa in particolare, ma per tutto il mondo: per ogni persona,
per tutti coloro che soffrivano. E’ un amore vivo, non un amore formale. Io ho avuto
la grazia di poterla visitare una volta e farmi dire una parola, e sono rimasta sorpresa
perché da una reclusa mi aspettavo magari una parola ascetica; e invece, la parola
era proprio l’amore, questa realtà, questa vocazione di ogni uomo e di ogni donna
all’amore.