Libia: oltre 40 morti negli scontri tra miliziani e civili, nuove violenze a Tripoli
Nuovi scontri a Tripoli, in Libia, tra fazioni rivali dopo quelli di venerdì che hanno
provocato la morte di 40 persone e il ferimento di altre 460. All’origine, una protesta
pacifica della popolazione per dire no alla presenza di queste frange armate nel Paese
in particolare quella di Misurata che controlla il quartiere di Gharghur. Immediata
la condanna dell'Ue. Il governo libico ha chiesto il cessate il fuoco immediato e
deciso tra l’altro di tagliare i fondi a diversi gruppi jihadisti. Al microfono di
Cecilia Seppia l'analisi di Bernard Selwàn Elkourì, vicedirettore dell’Osservatorio
geopolitico mediorientale di Roma:
R. - Quello
che è accaduto è forse l’episodio più violento in termini di conflitto tra le milizie
armate ed i civili, che chiedono il loro disarmo dalla caduta del regime di Gheddafi,
nel 2011. E’ ovvio che ciò non desta stupore per chi osserva gli sviluppi in Libia.
Si tratta sicuramente di un episodio gravissimo da un punto di vista umano - contando
il numero di morti - ma dal punto di vista politico ormai è chiaro che il braccio
di ferro, non tanto tra il governo e le milizie, o il parlamento e le milizie - in
quanto in quel caso ci sono diverse collusioni - ma tra la popolazione civile e la
presenza di queste milizie sia ormai arrivato al culmine. È ovvio che gli stessi cittadini
che sono scesi in piazza due anni fa, per chiedere la caduta di un regime e l’avvio
di una fase democratica, si vedono oggi stretti in una nuova morsa forse peggiore
di quella che c’era durante gli anni del regime, che si traduce appunto in milizie.
D.
- Chi sono questi gruppi, come agiscono, si sono rafforzati dopo la caduta di Gheddafi?
R.
- Questi gruppi di ispirazione jiadista o di ispirazione qaedista sono riemersi -
è ovvio che le sacche qaediste sono sempre esistite in Libia - ma soprattutto si sono
rafforzati grazie alle armi che si trovavano nei depositi delle forze armate di Gheddafi.
Parliamo in particolar modo dell’area di Bengasi, Sirte e Derna.
D. - Tra
l’altro c’è stata proprio una stretta del governo libico che ha annunciato di voler
bloccare entro gennaio 2014 qualsiasi sostegno materiale ed economico ad alcune di
queste milizie. Però, forse una soluzione potrebbe essere quella di integrare queste
frange nell’esercito…
R. - Assolutamente. Questa è la politica che sta portando
avanti non soltanto il governo libico ma è un’iniziativa sostenuta da buona parte
dei Paesi europei e l’Italia in questo sta giocando un ruolo molto importante. Mi
riferisco, appunto, alla formazione e all’addestramento dei militari libici che poi
andranno a ricoprire un ruolo istituzionale all’interno degli apparati di sicurezza
e militari in Libia. È ovvio che è una politica difficile da attuare e perché? Perché
certo queste milizie sono composte dagli stessi ribelli che hanno contribuito alla
caduta di Gheddafi e per questo godono di un certo rispetto all’interno dell’opinione
pubblica; ma quel rispetto è stato intaccato da diverse iniziative, da scelte errate
da un punto di vista tattico-strategico da parte di queste milizie agli occhi dell’opinione
pubblica, perché loro hanno continuato ad usare la forza, le armi, rifiutando di integrarsi
nei vari apparati dello Stato.
D. - La Libia è chiaro non può considerarsi
un Paese completamente pacificato. C’è una situazione di caos latente che emerge,
come nel caso di ieri, con questi episodi drammatici e che si riflette spesso anche
sul settore economico; penso alla protesta dei berberi che blocca da giorni la distribuzione
di gas e di petrolio nell’impianto di Mellitah gestito dall’Eni…
R. - Ciò che
preoccupa maggiormente - oltre alla questione umanitaria legata agli episodi di violenza
ed al grande ed incontrollato flusso di immigrati clandestini - è ovviamente un’emergenza
dal punto di vista economico per il Paese. Questo significa non soltanto una crisi
di approvvigionamenti per i Paesi europei, ma significa anche una grave crisi sul
bilancio dello Stato libico e sul funzionamento stesso della macchina dello Stato,
quindi sul pagamento di tutti coloro che dipendono e lavorano per lo Stato.