Israele interrompe progetto di 20 mila nuovi alloggi. L'analista: ma c'è chi soffia
sulla crisi
Tensione in Medio oriente dopo l’uccisione ieri di un soldato israeliano ad Afula,
vicino Nazareth per mano di un diciassettenne della Cisgiordania che voleva vendicare
l'arresto di suoi congiunti da parte dell'esercito di Tel Aviv. Numerose le manifestazioni
di protesta che ne sono seguite e lo scambio reciproco di accuse a livello politico.
Intanto nonostante il premier israeliano Netanyahu abbia fatto sapere di voler interrompere
il già annunciato progetto di 20 mila nuovi alloggi per i coloni nei Territori, i
negoziatori palestinesi nelle trattative di pace mediate dagli Usa, si sono dimessi.
Per
valutare se si possa considerare un’inversione di tendenza rispetto alla politica
israeliana, Fausta Speranza ha chiesto l'opinione di Claudio Lo Jacono,
direttore della rivista Oriente moderno:
R. – Spero sia
un impegno sincero. Cosa penso? Che questo fa parte del solito gioco del tira e molla,
per cui gli insediamenti costruiti sul territorio occupato palestinese diventano un
argomento per trattative e per premere sul governo di Abu Mazen in un senso o nell’altro.
Nel momento dello scontro si dà il via alle costruzioni, mentre nel momento in cui
si vuole – per qualsiasi motivo – arrivare invece a un dialogo più aperto, rispetto
alla chiusura e addirittura alla rottura paventata, allora si fa un passo di buona
volontà. Che questo si realizzi, non si può sapere, perché non è dato credere alle
promesse dell’una e dell’altra parte in queste trattative, che non hanno fine dagli
accordi di Oslo in poi.
D. – Dunque, non si riesce a uscire dallo stallo di
ormai tre anni, nonostante tutti i tentativi del segretario di Stato Usa, Kerry nella
regione...
R. – Certamente no. Con un governo, diciamo, oltranzista come quello
guidato da Netanyahu, per quanto possa essere stato ammorbidito dalle recenti elezioni
e dal recupero di formazioni non sicuramente di estrema destra, è difficile arrivare
a fare un dialogo con una parte che è schiacciata in un angolo, perché – per intenderci
chiaramente – i piani sono ben diversi: Israele è uno Stato autorevole, forte, con
una credibilità anche internazionale di lunga data. l’Autorità nazionale palestinese
è un abbozzo di Stato, sottoposto al placet delle grandi potenze e di Israele
e ha, tra l’altro, uno scarso controllo di tutte le sue componenti ideologiche e politiche.
Per cui, il tutto è da vedere, passo dopo passo. Ci vuole buona volontà, in questo
caso secondo me la deve dimostrare Israele.
D. – Vogliamo dire a chi interessa
rimanere nello status quo?
R. – Io credo che interessi ad altre potenze
fuori di questa regione. Non interessa neppure all’Iran in questo momento, con la
nuova presidenza che vorrebbe arrivare a un accordo con gli Stati Uniti e dunque placare,
in qualche modo, anche le giustificate paure di Israele su una possibile arma atomica,
alla quale io non credo molto, ma che è comunque nelle possibilità. Può servire, naturalmente,
a chi vuole soffiare sul fuoco delle guerre nell’area vicino orientale. Sappiamo quello
che sta succedendo da anni e non parlo del Nord Africa, dell’Egitto e della Siria,
dell’Iraq di pochi anni fa o di oggi, che è ancora in una situazione assolutamente
drammatica. E in questi contesti non sono solo i protagonisti ad agire, ci sono cause
di instabilità e impossibilità di arrivare a una soluzione equa. Dunque, chi ha questo
interesse – e sono anche Stati arabi, naturalmente, e non si parla chissà di quali
potenze o superpotenza – a mantenere instabile questa area, naturalmente non favorisce
e non vede con piacere un accordo tra degli accomodanti israeliani e degli accomodanti
palestinesi. Si soffia sul fuoco degli estremismi, perché si ha da guadagnare dalla
instabilità dell’intera regione vicino orientale.