Un palestinese è rimasto ucciso ieri in Cisgiordania. L’uomo, che ha sparato un razzo
da segnalazione contro degli israeliani al raccordo stradale di Tapuach, è stato colpito
dal fuoco delle forze di sicurezza di Tel Aviv. Intanto resta di primo piano la questione
Arafat, dopo le rivelazioni sul possibile avvelenamento con il polonio. Per questa
mattina è stata annunciata una conferenza stampa alla Muqata, il palazzo presidenziale
di Abu Mazen a Ramallah. Si parla di inchiesta interna ma anche di una "commissione
internazionale per far luce sulla morte dell’ex leader storico dell’Olp avvenuta in
Francia l'11 novembre 2004. Fausta Speranza ha intervistato il corrispondente
per il Medio Oriente dell’Ansa, Lorenzo Trombetta:
R. – Giornalisticamente,
ancora non possiamo parlare di una notizia confermata al cento per cento. Certo, se
dovesse essere confermata si tratterebbe di un omicidio politico. Chi potrebbe essere
stato? Questo sarebbe molto difficile da scoprire: ci possono essere, ovviamente,
le ipotesi più evidenti, anche quelle più disparate. Il primo sospettato potrebbe
essere senza dubbio Israele che, comunque, dal 2004 continua a negare qualunque coinvolgimento
in questa ipotesi. Ma non soltanto Israele. Anche in campo interarabo, addirittura
in campo palestinese potrebbero esserci stati eventuali mandanti o persone interessate,
in quel momento storico, nel 2004, ad eliminare una figura di riferimento come lo
era Yasser Arafat.
D. – Però, oltre a scatenare un’inchiesta forse anche a
livello internazionale, tutto questo in un momento di stallo del negoziato israelo-palestinese
cosa può provocare?
R. – No, non credo che possa avere alcun tipo di ripercussione
politica immediata sullo stallo che continua ad esserci ormai da molto tempo. La questione
israelo-palestinese è ormai derubricata da tutte le cancellerie occidentali, al di
là della retorica, ovviamente, ma nei fatti. Il braccio di ferro prosegue, lontano
dai tavoli, con un registro assai meno serrato e con impegni anche massimalisti. Sostanzialmente
si parla di questioni relative alla gestione del territorio, con la costruzione di
nuovi insediamenti israeliani, con la limitazione degli affari palestinesi sia di
Gaza sia di Cisgiordania; ma, ormai, la questione israelo-palestinese è stata sempre
più relegata ad una questione di polizia, una questione di sicurezza relativa allo
Stato di Israele, quasi come se non stesse più assumendo una dimensione internazionale
regionale, come lo era qualche tempo fa.
D. – Ricordiamo che cosa ha significato
Arafat per il mondo palestinese, in poche parole? E che cosa può significare ancora,
forse, a livello simbolico?
R. – Arafat, sin dalla fine degli anni Sessanta,
ha impersonificato una rinascita non soltanto militare ma sostanzialmente politica
e ideologica della lotta per la liberazione di una popolazione. Nel corso dei decenni,
poi, il “personaggio Arafat”, ovviamente, è andato oltre il suo valore politico in
quanto persona, che negli anni – in particolare, negli ultimi anni – piano piano ha
perso la presa nei confronti di una realtà in profondo cambiamento. Così Arafat è
stato gradualmente isolato, messo a nudo da una serie di consiglieri, di personaggi
che invece gli avevano dato, negli anni precedenti, grande forza, anche politica.
Pensiamo dunque ad un Arafat quindi sempre più solo, anche fisicamente, intellettualmente,
culturalmente. La leadership si è trovata con questo grande leader carismatico ammalato
e anziano, non più capace di essere guida, e con una situazione attorno a lui di deserto,
intellettuale e culturale. Quindi, ancora oggi la società palestinese soffre di questa
assenza, non soltanto di un leader, ma di una serie di personaggi politicamente e
culturalmente capaci di dare un’idea, una soluzione alternativa a quella di Hamas,
dei salafiti di Gaza o di un’Anp in mano ad una cricca di personaggi che tutti, nel
mondo palestinese, definiscono corrotti e, in certi casi, comunque asserviti agli
Stati Uniti e a Israele.