Escalation di violenza in Iraq: 65 morti, ma la società civile non si arrende
Ennesima domenica di sangue in Iraq. Almeno 65 persone hanno perso la vita in una
lunga scia di attentati; i più gravi sono avvenuti a Baghdad, dove sono state 52 le
persone che sono morte a causa di 10 bombe esplose in otto aree a maggioranza sciita.
Una situazione di forte instabilità che, dall’inizio dell’anno, ha provocato oltre
6.500 vittime. Nonostante tutto, la società civile irachena continua a lottare contro
la violenza e propone quotidianamente iniziative per promuovere la pace. L’appuntamento
più importante è stato il primo Forum Sociale Iracheno, svoltosi a Baghdad dal 23
al 28 settembre scorsi, alla presenza di almeno 3.000 attivisti. Tra loro anche Martina
Pignatti Morano, presidente dell'Associazione “Un ponte per...” e coordinatrice
del comitato internazionale di solidarietà per il Forum Sociale Iracheno. Salvatore
Sabatino l’ha intervistata:
R. – E’ stato
un momento di grande speranza. Noi delegati internazionali ci siamo confrontati con
una nuova generazione di attivisti iracheni, ragazzi che hanno 20-30 anni e che, nonostante
siano cresciuti sotto le bombe, in un clima di terrore, hanno grande capacità di lavorare
per diffondere la cultura della pace e della non violenza, lottare per i diritti umani
e non hanno paura: quindi, sono disposti a mettersi in gioco, a scendere in strada
e a organizzare eventi culturali.
D. – In quei giorni voi avete vissuto comunque
il clima di tensione che in realtà gli iracheni vivono sulla loro pelle quotidianamente
…
R. – Noi ci siamo resi conto che quello che ci dicevano le ambasciate internazionali
non era vero, nel senso che per promuovere la nostra sicurezza e quella degli attivisti
non serviva scorta armata: era sufficiente muoversi con persone che conoscono la città,
e quindi noi eravamo sempre scortati da giovani ragazzi disarmati. Da questo punto
di vista, anche grossi eventi pubblici in parchi cittadini vengono organizzati dall’associazionismo
senza la scorta della polizia: quindi, anche il tentativo vano del governo iracheno
di promuovere la sicurezza acquistando più armi dagli Stati Uniti è illusorio.
D.
– Affianco alla cronaca degli attentati e delle violenze, c’è comunque una voglia
di ripartire e questa voglia parte dalla base …
R. – Sì: e forse la priorità
da parte degli iracheni è dimostrare che c’è grande capacità di lavorare insieme tra
etnie e confessioni religiose diverse e grandissimo rispetto per le minoranze. Quindi,
quelle minoranze che spesso hanno dovuto fuggire, tra cui naturalmente quella importantissima
cristiana. Fuggire da Baghdad, fuggire da Mossul per rifugiarsi in aree confinate
nel Nord dell’Iraq oppure all’estero … A Baghdad, nel Forum Sociale Iracheno, sono
state riconosciute: il forum è stato aperto con una danza di ragazzi delle comunità
caldee cristiane del Nord; davanti alle registrazioni c’era la musica curda che nel
centro di Baghdad è una cosa assolutamente eccezionale, non ordinaria. Quindi da parte
delle persone, del popolo iracheno c’è una grande volontà di dimostrare la pratica
della convivenza, ogni giorno, nel quotidiano …
D. – Nonostante questa voglia
di ripartire, di mettersi alle spalle la violenza, però purtroppo la cronaca quotidiana
ci propone attentati, morte, distruzione … sono circa 6.500 le persone che hanno perso
la vita dall’inizio dell’anno. La gente cosa dice di questa violenza quotidiana?
R.
– Sono esasperati e sanno benissimo che questa situazione di sicurezza precaria è
causata anche dagli sviluppi della guerra in Siria e dalle posizioni che il governo
iracheno sta assumendo in questo momento. Però c’è una chiara imputazione di responsabilità
alla politica: questo non è un conflitto interconfessionale, non ha matrice religiosa,
ha una matrice interamente politica e la chiave repressiva con cui il governo sta
cercando di gestire la crisi e la militarizzazione sono tutte strategie fallimentari
che non fanno altro che provocare l’aumento della tensione. E quindi, contro tutto
ciò le persone protestano.
D. – Baghdad è stata conosciuta nella storia come
città della pace, città della convivenza. Tornerà ad essere una città così, aperta?
R.
– Noi abbiamo la speranza che questa nuova generazione ce la faccia. Questi sono ragazzi
che noi non conoscevamo, perché anche con l’associazione “Un ponte per”, che da tempo
lavora nella cooperazione con l’Iraq, eravamo abituati a relazionarci con chi ha ormai
dai 40 ai 60 anni. I giovani di Baghdad hanno l’intelligenza, la forza di volontà
e, in questo momento, davvero anche i contatti internazionali per promuovere un significativo
cambiamento politico e sociale. Internet ci aiuta: possiamo seguirli anche da lontano,
per fortuna. E quindi invito, per esempio, chi legge l’inglese a controllare il sito
www.iraqicivilsociety.org per conoscere le loro campagne e portare solidarietà.