Cento anni fa nasceva il baritono Tito Gobbi: ha portato la lirica italiana nel mondo
E’ stato uno dei più grandi baritoni del ventesimo secolo e questo 25 ottobre ricorre
il centenario dalla sua nascita. Parliamo di Tito Gobbi che ha portato nel mondo l’arte
lirica italiana e che in questi giorni i teatri americani ed europei, le radio, la
stampa internazionale, ricordano con una ricca serie di eventi. Domani il Teatro alla
Scala di Milano gli dedicherà la prima dell’Aida di Giuseppe Verdi di cui fu un interprete
unico. Gabriella Ceraso ha incontrato la figlia, Cecilia Gobbi, che
ha pubblicato in questi giorni un dvd con tre interpretazioni inedite di suo padre
per la BBC. Nelle sue parole il ricordo dell’uomo e dell’artista:
R. – Lui ha
lasciato una grandissima traccia in tutte le persone che ha conosciuto e in tutte
quelle con cui ha lavorato, in tutti i giovani cantanti che sono passati per il suo
“Opera Workshop” o per le sue “masterclasses”; ma anche in una parte di pubblico …
D.
– Tra le tante cose che sono state scritte su suo padre, torna sempre la figura di
un uomo che ha saputo anche recitare: una presenza scenica, una caratterizzazione
dei personaggi molto particolare …
R. – E se devo mettere nell’ordine la parola
doppia cantante-attore, il mio istinto è attore-cantante: aveva questa necessità di
compenetrarsi, di calarsi nel personaggio, di diventare personaggio, di esserlo e
quindi di vivere quella storia per poter essere convinto di quello che poi faceva.
D.
– A casa questo poi quanto trapelava?
R. – Trapelava, ma in maniera giocosa.
Nel senso che, se si metteva in cucina magari si divertiva a fare una ricetta che
pensava legata ad un personaggio; aveva un notevolissimo talento come pittore, disegnatore:
si disegnava il personaggio. Che cosa mi ha lasciato questo? Questo mi ha lasciato
una grandissima curiosità nei confronti della vita, nei confronti di tutto: raccolta
di storie, comprensione delle storie … Poi, invece, su un altro piano mi ha lasciato
una grande ricchezza perché comunque la musica è una ricchezza, è un qualcosa
in più che – secondo me – ci rende migliori. Questa era una convinzione di famiglia.
D.
– E questo ha prodotto dei ruoli particolarmente amati?
R. – Sì: particolarmente
amati, anche se bisogna dire che lui i suoi ruoli li ha amati tutti, perché in realtà
non riusciva ad avvicinarsi ad un ruolo senza amarlo. E i ruoli sono molto diversi.
Si identificava perfettamente con Falstaff, che in fondo è un simpatico bonaccione
un po’ filosofo e un po’ mascalzone, e però si identificava in maniera straordinaria
con Rigoletto e la sua spaventosa tragedia; con l’idealismo di Rodrigo, marchese di
Posa nel Don Carlo, così come con la visione ideale superiore e straordinaria di Simone
Boccanegra. Lui diceva: “Se tu il personaggio te lo metti addosso, come una giacchetta
… cioè, qui cosa deve fare? Qui deve fare il brindisi? Ok, fai il brindisi. E qui
che deve fare? Deve ammazzare quello? Bene, lo ammazzo …”. Quello era metterselo addosso
come una giacchetta. Diceva: “Se non fai così, il pubblico non ci crede, non lo convinci.
E se il pubblico non ci crede, il teatro è finito. Perché a teatro bisogna andare
per emozionarsi”.
D. – La Scala dedica la prima dell’Aida a suo padre: Verdi
e Tito Gobbi, un matrimonio ben riuscito, perché?
R. – Un grandissimo matrimonio,
perché credo che ci sia anche un sentire comune, cioè: Verdi era un personaggio un
po’ burbero, abbastanza austero, con dei principi; però poi era anche un uomo libero,
di grande creatività, indiscutibilmente un uomo che aveva grandissimi sentimenti …
C’era, c’è stato un feeling … E’ in qualche misura buffo che in quello che
si chiama l’immaginario collettivo, mio padre viene invece normalmente associato allo
Scàrpia della Tosca di Puccini: in assoluto è il ruolo che ha interpretato di più,
a gran richiesta, insomma. Siamo a 900 e passa recite. Sicuramente, lui come persona
era verdiano …
D. – Le vesti in cui ricorda suo padre: cioè, se dovesse identificarlo
con uno dei suoi personaggi …
R. – Mio padre era Simone Boccanegra, e Simone
Boccanegra era mio padre. Perché l’ho identificato in lui? Perché lì c’è questo rapporto
padre-figlia fortissimo, c’è un po’ la conflittualità generazionale, tra il padre
che vorrebbe la figlia in un certo modo e la figlia che ama un altro e il padre che
deve accettare … Poi c’è un aspetto di grande generosità e compassione, pietà verso
gli altri, che però si accompagna al senso di giustizia che non è il buonismo tremendo
di cui si parla oggigiorno. E poi, ci sono questi valori alti della Patria, ma non
nel senso più bieco del termine: dell’unità, della fratellanza. Poi, da ultimo, c’è
questo grande rapporto di Simone con il mare, che secondo me è anche un grandissimo
elemento simbolico, una rappresentazione della natura e forse anche di Dio.