"Nelle vene d'America": l'ultimo libro di p. Spadaro. L'autore: non un manuale, ma
un percorso personale
E' uscito ieri in libreria “Nelle vene d’America” di padre Antonio Spadaro, edito
da Jaca Book. Il volume si sofferma su alcune grandi figure della letteratura americana,
da Walt Whitman a Jack Kerouac, ma anche su autori considerati minori ma non per questo
meno significativi per comprendere il panorama letterario americano. Alessandro
Gisotti ha chiesto a padre Antonio Spadaro quali contenuti e quali spunti
i lettori troveranno nella lettura del suo ultimo libro:
R. – Troveranno
certamente un percorso personale, legato a figure significative con le quali ho cercato
di stabilire una sorta di doppio rapporto: un rapporto da un lato critico, evidentemente,
cioè di critica letteraria, ma dall’altro di forte empatia. Quindi, il mio obiettivo
è stato quello di far fare ai lettori un’esperienza personale degli autori, quindi
di entrare nelle vene della loro ispirazione, della loro visione della vita. Non è
un manuale, in nessun modo, anche perché la selezione degli autori non è affatto canonica.
Certo, sono presenti i grandi classici come Walt Withman, Emily Dickinson, Jack London;
ma sono presenti anche autori molto amati in Italia, più di quanto lo siano negli
Stati Uniti: per esempio, Edgar Lee Masters e l’“Antologia di Spoon River”; Raymond
Carver … Ma ho cercato anche di fare emergere dall’oblio autori come Pascal D’Angelo
ed Emanuel Carnevali, che sono gli autori dell’immigrazione italiana: una vicenda
sia biografica, sia letteraria, davvero folgorante.
D. – Si può dire che la
frontiera è il tema, la dimensione che accomuna questi poeti, questi scrittori così
diversi tra loro?
R. – Certamente! Ho seguito un filo conduttore, che è questo
della frontiera. In fondo, l’eroe americano è una figura in perenne movimento, e con
il passare del tempo – della storia, anche – il nuovo mondo, inteso come “terra promessa”,
“terra vergine” era destinato a scomparire in quanto tale. Ma la frontiera ha continuato
a resistere nel tempo, fino ad oggi, come simbolo e come metafora. Quindi, la frontiera
è metafora di un mondo alternativo, fluido, sempre in divenire. Per uno storico americano
di fine Ottocento, è proprio l’esistenza della frontiera ad aver reso davvero unica
e irripetibile la storia americana. Nella letteratura statunitense esiste un territorio
esteriore, quindi una frontiera esteriore, ma anche un territorio interiore che è
specchio di quello esteriore. Intendo dire che il movimento locale, cioè il viaggio,
da quello nelle praterie a quello sulle autostrade, diventa dunque una figura dell’anima.
Quindi, esiste una prateria dell’anima – l’ignoto e il selvaggio, se vogliamo, dello
spirito umano – ed esiste una prateria interiore, un viaggio interiore.
D.
– Da ultimo, anche la spiritualità vissuta a volte anche come tensione e confronto,
è un altro aspetto che, si vede, accomuna molti degli autori se non tutti, di “Nelle
vene d’America” … Questo aspetto, pure, merita una riflessione particolare …
R.
– Sì. Innanzitutto, Flannery O’Connor, che è una scrittrice grandissima: lei ha descritto
un mondo che è “work in progress”, non finito, in attesa di compimento, dove la grazia
lavora: ma lavora secondo categorie che non sono quelle alle quali noi siamo abituati.
E la sua grazia – direi – non è graziosa: spesso, anzi, proprio nel dramma
della libertà e della violenza, è al limite del grottesco che la si riconosce. Jack
Kerouac, a sua volta, direi che sia incomprensibile senza il cattolicesimo. Lui una
volta disse: “I am not a beatnik, I am a Catholic”. Le dinamiche dei suoi personaggi
sono tutte segnate profondamente dal cattolicesimo: direi, un cristianesimo paolino.
Lui, ad un certo punto, divenne buddista, come era anche di moda nei suoi anni, provando
a vivere una vita ascetica. Il cristianesimo, invece, gli diceva che c’è un mondo
reale, fatto di santità e di peccato, e il buddismo gli faceva vedere il mondo come
privo di realtà, come illusione. Quindi, ad allontanare, di fatto, Kerouac dal buddismo
fu paradossalmente proprio l’esperienza di vita dissipata e sregolata, cioè il peccato
che è quel diavolo che, secondo Flannery O’Connor, spesso getta le basi necessarie
affinché la grazia sia efficace.