Usa, rischio "default". L'economista Carlà: c'è ancora margine per un accordo
Ultimi tentativi negli Stati Uniti per sbloccare l'impasse sullo shutdown e
sull'aumento del tetto del debito. È ripartita la trattativa in Senato, a meno di
24 ore da un possibile default del Paese. Un'intesa a Washington sembra vicina,
ma si continua a lavorare sui dettagli dell'accordo che punta ad aumentare il tetto
del debito fino al 7 febbraio e a finanziare il governo fino al 15 dello stesso mese,
creando contemporaneamente una commissione per la riduzione del deficit. Dopo la marcia
indietro della Camera per due volte e la sospensione dei negoziati, nelle casse del
Tesoro stanno per rimanere 30 miliardi di dollari. Oggi, è in programma un incontro
fra il president,e Barack Obama, e il segretario al Tesoro, Jack Lew. Intanto, l’agenzia
Fitch avverte: il rating di "tripla A" potrebbe essere tagliato. Per il momento,
comunque, lo mette sotto osservazione. Sulle ragioni dello shutdown, Giada
Aquilino ha intervistato l’economista Francesco Carlà:
R. – La ragione
è che c’è uno scontro politico radicale tra repubblicani e democratici, un genere
di scontro che avviene molto spesso, si ripete ciclicamente, in particolare quando
la presidenza è democratica e il Congresso è repubblicano, come in questo caso tra
Obama e i repubblicani.
D. – Cosa c’è all’origine?
R. – All’origine,
ci sono due visioni completamente diverse su come gestire le finanze pubbliche e naturalmente
anche a quali spese pubbliche dare priorità. I democratici sono a favore di un maggiore
welfare negli Stati Uniti – in questo caso l’"Obama Care", la riforma della Sanità
di Obama, è al centro della questione – e i repubblicani invece sono per una visione
di privatizzazione di questo genere di attività. Lo scontro nasce da qui.
D.
– Se non dovesse arrivare l’accordo, gli Stati Uniti – per la prima volta nella storia
– non potrebbero più assicurare tutti i pagamenti. Sarebbe deflagrazione mondiale?
R.
– Le conseguenze mondiali sarebbero molto pesanti. In tempi completamente diversi,
la crisi del ’29 è arrivata praticamente in tutti gli angoli del mondo, facendosi
sentire a distanza di anni e non è stata estranea poi alla Seconda Guerra mondiale.
Ma io non credo che si arriverà a questo. Sicuramente, si troverà un accordo, perché
c’è più tempo di quello che si pensi. Molti ritengono che la scadenza sia questa settimana,
ma in realtà il limite finale è il 15 novembre, quando eventualmente gli Usa non pagherebbero
i primi interessi sul debito e quindi farebbero questo famoso default.
D.
– L’impasse politica a Washington rende più forte il timore per un downgrade
degli Stati Uniti?
R. – Teniamo presente che intorno a tutto questo clamore
abbiamo un Paese che ha ancora la tripla A. Se consideriamo invece il rating
di altri Paesi mediterranei, come l’Italia o la Spagna, lo scenario dovrebbe essere
molto più tranquillizzante. Ma negli States ci sono due cose diverse, rispetto a ciò
che succede in Europa: da un lato, il tetto, il cosiddetto ceiling del bilancio,
del deficit, è stabilito dalla legge e quindi non può essere modificato, se non si
modifica la legge. Dall’altro, c’è questo scontro radicale tra la visione delle faccende
economiche pubbliche da parte dei repubblicani e da parte dei democratici.
D.
– E quanto valgono gli avvertimenti di Fitch sul possibile taglio della tripla A?
R.
– Poco, perché anche le agenzie di rating hanno dimostrato in questi anni di
avere varie visioni di scenari economici e finanziari dei Paesi. Un Paese come l’Italia
può essere trattato peggio, viene spesso trattato peggio, di un Paese come gli Stati
Uniti.
D. – E se invece si arrivasse a un accordo, come ripartirebbe la macchina
dell’amministrazione americana?
R. – Da questo punto di vista, l’impatto dello
shutdown sull’economia, naturalmente, dipende dalla durata. Potrebbe diventare
grave, se dovesse protrarsi ancora per un po’: potrebbe costare un pezzo del Pil degli
Stati Uniti. Io credo, invece, che si troverà un accordo in tempi abbastanza brevi.
Le conseguenze sui mercati non ci sono state fino ad ora praticamente e anche quelle
sull’economia americana sarebbero minime.