2013-10-16 15:51:22

70 anni fa i nazisti nel ghetto di Roma. Il ricordo di Elvira Di Cave e dello storico Pezzetti


Sono trascorsi 70 anni da quando, il 16 ottobre del 1943, 1022 ebrei romani, tra cui oltre 200 bambini, vennero rastrellati nel Ghetto di Roma e in altri quartieri della capitale, dai soldati nazisti e deportati ad Auschwitz. Solo in 16 tornarono, tra loro una donna. Ieri, nel ricordare l’ennesimo tragico atto di un periodo storico carico di violenza e vergogna, le più alte cariche dello Stato italiano hanno rievocato quanto avvenuto. Il presidente, Giorgio Napolitano, recatosi in Sinagoga e davanti ai sopravvissuti, ha elogiato l’ introduzione del reato di negazionismo approvato martedì in Senato. "E' una grande giornata di coesione e unità di tutte le fedi e tutte le religioni", ha aggiunto il capo dello Stato. Nel Tempio Maggiore, è stato letto un messaggio del Papa indirizzato alla comunità ebraica, nel quale Francesco invita a non abbassare la guardia contro l’antisemitismo. Questa commemorazione – si legge – è un appello alle nuove generazioni a "non lasciarsi trascinare da ideologie, a non giustificare mai il male”. Quel 16 ottobre del 1943, fu solo l’ultima tappa di un triste itinerario iniziato con le leggi razziali. Lo racconta Marcello Pezzetti, storico, direttore della fondazione Museo della Shoah, intervistato da Francesca Sabatinelli:RealAudioMP3

R. - Il ’38 è il momento della grande cesura tra l’Italia e la sua minoranza ebraica, è il momento in cui si dice: voi non appartenete più a questa comunità nazionale, dal momento in cui la comunità nazionale deve essere ariana e voi non lo siete. Qui, c’è già il baratro. Ma, nonostante ciò, fino al 1943 gli italiani non danno retta alla volontà nazista di deportazione della sua minoranza ebraica. Cioè, gli ebrei sono cittadini di “serie B”, sono ritenuti inferiori da un punto di vista biologico, non possono più fare determinati mestieri, non possono più stare all’interno della società, ma non sono deportati. Fino a quando i tedeschi non prendono il controllo della situazione e non occupano il Paese, non c’è deportazione degli ebrei.

D. - Quindi, probabilmente gli ebrei romani, quel 16 ottobre - in realtà a pochissimo tempo dall’armistizio - forse non se lo aspettavano neanche…

R. - Non se lo aspettavano soprattutto per due motivi. Primo: c’erano stati 50 chili d’oro (durante l'occupazione di Roma i tedeschi obbligarono la comunità ebraica a raccogliere e consegnare 50 chili d'oro - ndr) e quindi avevano pensato che si fosse placata la sete nazista di violenza antiebraica attraverso quel ricatto dell’oro. Tutti convinti che i tedeschi sono di parola, di conseguenza anche i nazisti hanno detto che non avrebbero deportato, dunque non lo avrebbero fatto. Secondo motivo: perché convinti che "Roma città aperta", e soprattutto città del Papa, non avrebbe subito questa violenza tedesca.

D. - Dunque, gli ebrei a quel punto si sentirono traditi dai loro stessi concittadini?

R. – Ma nemmeno questo. Hanno capito che neanche Roma li avrebbe protetti e hanno capito che nessuno, a quel punto, sarebbe stato in grado di farlo e che forse si erano fidati troppo. Ma sono così. Un ebreo romano, come tutti gli alti romani "doc", difficilmente abbandona la sua città. Gli ebrei romani, quelli sopravvissuti, hanno la percentuale più alta di ritorno nel luogo d’origine. In genere, i sopravvissuti dell’Est dell’Europa non ritornano più, anche in Francia fanno fatica a ritornare. Gli ebrei italiani ritornano quasi tutti in Italia, in particolare gli ebrei romani ritornano a Roma.

D. - Però, la città che legami aveva con loro? Come fu la reazione degli altri romani?

R. - Secondo me, possiamo dividere i cittadini italiani in genere, ma i romani in particolare, in tre categorie: gente che capisce il problema e aiuta, ed è un numero consistente che va preso in considerazione. Poi, abbiamo un numero che, diciamo, è il più alto dal punto di vista numerico, di quelli che non fanno nulla, che sono indifferenti, non hanno coraggio e non si può chiedere coraggio a tutti. E infine, c’è l’ultima parte, la più piccola a livello numerico e purtroppo la più negativa, quella che invece collabora con la politica di sterminio.

D. – 1.022 le persone che finirono nelle mani dei tedeschi, compreso colui che morì di infarto al momento dell’arresto, compreso il bambino che nasce il giorno dopo nel collegio militare e compresa anche una donna che non volle abbandonare la persona anziana che accudiva. Chi era questa donna?

R. - Era una sorta di badante, cattolica, condotta ad Auschwitz con gli altri. Questo io vorrei ricordare: la figura di questa donna il cui nome è stato inserito insieme a quello degli ebrei vittime. Questa donna straordinaria rimase con la signora che stava curando amorevolmente, non l’abbandonò, nemmeno nella camera a gas.

D. - Cos’è il ghetto oggi per la comunità ebraica romana?

R. - È la storia dell’ebraismo romano, è la storia della più antica comunità della diaspora. E’ difficile addirittura per me capirlo, che vengo da un’altra tradizione, quella ashkenazi. É lo sforzo di integrazione che poi viene brutalmente bruciato dai fascisti e dai nazisti, è la storia di un pezzo di Roma che appartiene a tutti noi.

D. - Questo significa che la comunità ebraica romana, in Italia, è quella più identificata con la città?

R. - Sì, in assoluto, in assoluto! Secondo me, se fossero tedeschi, scriverebbero “Wir sind hier”, “Noi siamo qui”, come hanno detto alcuni ebrei tedeschi dopo la fine della guerra. Ossia: noi siamo parte, noi siamo questa storia, e vogliamo continuare ad esserlo.

D. - I giovani, i ragazzi ebrei romani, sono dentro questa storia?

R. – Sì, sì. Sono dentro, ma tutti dovrebbero stare dentro questa storia, perché questa non è solo la storia degli ebrei. E’ la storia che riguarda la nostra cittadinanza, il nostro essere civili.


Ma ripercorriamo la tragedia di 70 anni fa attraverso le parole di Elvira Di Cave, presidente della Consulta della Comunità ebraica di Roma e primario all’Ospedale israelitico della Capitale. L’intervista è di Adriana Masotti:RealAudioMP3

R. - Il 16 ottobre del 1943, era l’ultimo giorno di Sukkot, la “Festa delle capanne”, ed era Shabbat, il sabato ebraico. Alle 5.15 di quel mattino, una giornata piovosa, i tedeschi arrivarono con i camion e bloccarono tutte le vie di accesso e quindi di uscita dal Portico di Ottavia, l’antico ghetto. Cominciarono a sparare in aria e alle 5.30 fecero irruzione e quindi cominciò la vera e propria razzia. In Via della Luce, numero 3, che è poco lontano dal Portico di Ottavia, la mia famiglia - tranne mio papà - è stata completamente deportata, nelle persone di mio nonno, mia nonna, le mie zie e le mie cugine, peraltro una neonata e una bambina di tre anni. Questo tipo di problema che c’è stato nella mia famiglia ha fatto in modo che mio padre, ogni volta che si presentava il 16 ottobre, entrava in un mutismo che cominciava qualche giorno prima e finiva qualche giorno dopo. Mio papà, al quale era stato vietato naturalmente di andare a scuola e quindi tutti quei diritti che vengono dati a persone normali e che i tedeschi avevano tolto, cominciando dal lavoro, con la chiusura delle attività commerciali ecc…

D. - Quindici uomini e una donna tornarono dai campi di sterminio dopo quella razzia. Come avvenne il loro reinserimento nella città?

R. - Il reinserimento dei sopravvissuti è stato una cosa abbastanza drammatica. Quando tornarono non raccontarono subito, perché con tutto quello che avevano visto non potevano pensare che qualcuno lo avrebbe creduto. E’ la grande preoccupazione che hanno i negazionisti: cioè il racconto, la testimonianza, perché una volta finiti i nostri testimoni, rimarrà soltanto a chi ha raccolto queste testimonianze e quindi figlie, nipoti e tutti gli storici, portare avanti quello che è la memoria della Shoah, cioè di una tragedia che ha colpito 6 milioni di ebrei e non soltanto di ebrei, ma ha colpito l’intero mondo, l’intero mondo dei discriminati e dei diversi.

D. - Quest’anno la comunità di Roma celebra con uno spirito un po’ diverso questo anniversario? Mi riferisco alla recente morte di Priebke, che ha forse riacutizzato tante cose, tanti ricordi, dolori.

R. - Guardi, assolutamente no. Il percorso storico per il 70.mo non è variato per quanto riguarda Priebke. Per noi, è morto uno dei boia che hanno tentato la distruzione del popolo ebraico, al quale non sono riusciti a dare la parola fine. Il popolo ebraico è ancora presente, i giovani sono assolutamente presenti e ricordano il passato per poter avere un futuro. Noi viviamo nel presente tutto quello che è stato nel passato, con la gioia però - ed è questo il nostro paradosso - di portare avanti quella che è la memoria dei nostri nonni, dei nostri padri. Noi li chiamiamo testimoni, perché sono testimoni della memoria.

D. - Anche Papa Francesco ha mandato un Messaggio per questo 70.mo anniversario, in cui scrive che “la commemorazione potrebbe essere definita come una memoria futuri”. Un appello alle nuove generazioni a non abbassare mai la guardia. E’ anche questo il senso, poi, del ricordare…

R. – Sono assolutamente d’accordo con Papa Francesco. Mi permetto di esserlo. Ho avuto la fortuna di incontrarlo tre volte ed ogni volta - tra virgolette - non ha mai deluso le mie aspettative. Le parole del Papa sono state le parole di una persona che tiene alla storia quanto noi, che tiene alla memoria quanto noi. Dobbiamo lavorare tutti quanti insieme. Non dobbiamo soltanto non dimenticare, ma dobbiamo fare in modo che quello che è accaduto non accada più per gli ebrei e per chiunque sia discriminato.

A 70 anni dalla deportazione degli ebrei romani, la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità ebraica di Roma, come ogni anno dal 1994, hanno fatto memoria di questo “tragico momento” della vita della città con un pellegrinaggio della memoria “perché tutti, soprattutto le giovani generazioni, non dimentichino la deportazione avvenuta durante l’occupazione nazista”. La manifestazione ha avuto luogo ieri sera e, dopo l’intervento di mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare di Roma, una marcia silenziosa si è snodata da piazza S.Maria in Trastevere a Largo 16 ottobre 1943. Un cammino a ritroso lungo il percorso dei deportati che dal ghetto furono condotti al Collegio Militare a Trastevere prima di essere imprigionati nei treni con destinazione Auschwitz. Alla marcia, oltre a centinaia di giovani delle scuole romane e a immigrati, hanno partecipato anche: Enzo Camerino, deportato (uno dei 16 superstiti), Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Renzo Gattegna, presidente delle Comunità ebraiche italiane, Ignazio Marino, sindaco di Roma, Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio. (R.P.)

Ultimo aggiornamento: 17 ottobre







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