70 anni fa i nazisti nel ghetto di Roma. Il ricordo di Elvira Di Cave e dello storico
Pezzetti
Sono trascorsi 70 anni da quando, il 16 ottobre del 1943, 1022 ebrei romani, tra cui
oltre 200 bambini, vennero rastrellati nel Ghetto di Roma e in altri quartieri della
capitale, dai soldati nazisti e deportati ad Auschwitz. Solo in 16 tornarono, tra
loro una donna. Ieri, nel ricordare l’ennesimo tragico atto di un periodo storico
carico di violenza e vergogna, le più alte cariche dello Stato italiano hanno rievocato
quanto avvenuto. Il presidente, Giorgio Napolitano, recatosi in Sinagoga e davanti
ai sopravvissuti, ha elogiato l’ introduzione del reato di negazionismo approvato
martedì in Senato. "E' una grande giornata di coesione e unità di tutte le fedi e
tutte le religioni", ha aggiunto il capo dello Stato. Nel Tempio Maggiore, è stato
letto un messaggio del Papa indirizzato alla comunità ebraica, nel quale Francesco
invita a non abbassare la guardia contro l’antisemitismo. Questa commemorazione –
si legge – è un appello alle nuove generazioni a "non lasciarsi trascinare da ideologie,
a non giustificare mai il male”. Quel 16 ottobre del 1943, fu solo l’ultima tappa
di un triste itinerario iniziato con le leggi razziali. Lo racconta Marcello Pezzetti,
storico, direttore della fondazione Museo della Shoah, intervistato da Francesca
Sabatinelli:
R. - Il ’38
è il momento della grande cesura tra l’Italia e la sua minoranza ebraica, è il momento
in cui si dice: voi non appartenete più a questa comunità nazionale, dal momento in
cui la comunità nazionale deve essere ariana e voi non lo siete. Qui, c’è già il baratro.
Ma, nonostante ciò, fino al 1943 gli italiani non danno retta alla volontà nazista
di deportazione della sua minoranza ebraica. Cioè, gli ebrei sono cittadini di “serie
B”, sono ritenuti inferiori da un punto di vista biologico, non possono più fare determinati
mestieri, non possono più stare all’interno della società, ma non sono deportati.
Fino a quando i tedeschi non prendono il controllo della situazione e non occupano
il Paese, non c’è deportazione degli ebrei.
D. - Quindi, probabilmente gli
ebrei romani, quel 16 ottobre - in realtà a pochissimo tempo dall’armistizio - forse
non se lo aspettavano neanche…
R. - Non se lo aspettavano soprattutto per due
motivi. Primo: c’erano stati 50 chili d’oro (durante l'occupazione di Roma i tedeschi
obbligarono la comunità ebraica a raccogliere e consegnare 50 chili d'oro - ndr) e
quindi avevano pensato che si fosse placata la sete nazista di violenza antiebraica
attraverso quel ricatto dell’oro. Tutti convinti che i tedeschi sono di parola, di
conseguenza anche i nazisti hanno detto che non avrebbero deportato, dunque non lo
avrebbero fatto. Secondo motivo: perché convinti che "Roma città aperta", e soprattutto
città del Papa, non avrebbe subito questa violenza tedesca.
D. - Dunque, gli
ebrei a quel punto si sentirono traditi dai loro stessi concittadini?
R. –
Ma nemmeno questo. Hanno capito che neanche Roma li avrebbe protetti e hanno capito
che nessuno, a quel punto, sarebbe stato in grado di farlo e che forse si erano fidati
troppo. Ma sono così. Un ebreo romano, come tutti gli alti romani "doc", difficilmente
abbandona la sua città. Gli ebrei romani, quelli sopravvissuti, hanno la percentuale
più alta di ritorno nel luogo d’origine. In genere, i sopravvissuti dell’Est dell’Europa
non ritornano più, anche in Francia fanno fatica a ritornare. Gli ebrei italiani ritornano
quasi tutti in Italia, in particolare gli ebrei romani ritornano a Roma.
D.
- Però, la città che legami aveva con loro? Come fu la reazione degli altri romani?
R.
- Secondo me, possiamo dividere i cittadini italiani in genere, ma i romani in particolare,
in tre categorie: gente che capisce il problema e aiuta, ed è un numero consistente
che va preso in considerazione. Poi, abbiamo un numero che, diciamo, è il più alto
dal punto di vista numerico, di quelli che non fanno nulla, che sono indifferenti,
non hanno coraggio e non si può chiedere coraggio a tutti. E infine, c’è l’ultima
parte, la più piccola a livello numerico e purtroppo la più negativa, quella che invece
collabora con la politica di sterminio.
D. – 1.022 le persone che finirono
nelle mani dei tedeschi, compreso colui che morì di infarto al momento dell’arresto,
compreso il bambino che nasce il giorno dopo nel collegio militare e compresa anche
una donna che non volle abbandonare la persona anziana che accudiva. Chi era questa
donna?
R. - Era una sorta di badante, cattolica, condotta ad Auschwitz con
gli altri. Questo io vorrei ricordare: la figura di questa donna il cui nome è stato
inserito insieme a quello degli ebrei vittime. Questa donna straordinaria rimase con
la signora che stava curando amorevolmente, non l’abbandonò, nemmeno nella camera
a gas.
D. - Cos’è il ghetto oggi per la comunità ebraica romana?
R.
- È la storia dell’ebraismo romano, è la storia della più antica comunità della diaspora.
E’ difficile addirittura per me capirlo, che vengo da un’altra tradizione, quella
ashkenazi. É lo sforzo di integrazione che poi viene brutalmente bruciato dai fascisti
e dai nazisti, è la storia di un pezzo di Roma che appartiene a tutti noi.
D.
- Questo significa che la comunità ebraica romana, in Italia, è quella più identificata
con la città?
R. - Sì, in assoluto, in assoluto! Secondo me, se fossero tedeschi,
scriverebbero “Wir sind hier”, “Noi siamo qui”, come hanno detto alcuni ebrei tedeschi
dopo la fine della guerra. Ossia: noi siamo parte, noi siamo questa storia, e vogliamo
continuare ad esserlo.
D. - I giovani, i ragazzi ebrei romani, sono dentro
questa storia?
R. – Sì, sì. Sono dentro, ma tutti dovrebbero stare dentro questa
storia, perché questa non è solo la storia degli ebrei. E’ la storia che riguarda
la nostra cittadinanza, il nostro essere civili.
Ma ripercorriamo la tragedia
di 70 anni fa attraverso le parole di Elvira Di Cave, presidente della Consulta
della Comunità ebraica di Roma e primario all’Ospedale israelitico della Capitale.
L’intervista è di Adriana Masotti:
R. - Il 16 ottobre
del 1943, era l’ultimo giorno di Sukkot, la “Festa delle capanne”, ed era Shabbat,
il sabato ebraico. Alle 5.15 di quel mattino, una giornata piovosa, i tedeschi arrivarono
con i camion e bloccarono tutte le vie di accesso e quindi di uscita dal Portico di
Ottavia, l’antico ghetto. Cominciarono a sparare in aria e alle 5.30 fecero irruzione
e quindi cominciò la vera e propria razzia. In Via della Luce, numero 3, che è poco
lontano dal Portico di Ottavia, la mia famiglia - tranne mio papà - è stata completamente
deportata, nelle persone di mio nonno, mia nonna, le mie zie e le mie cugine, peraltro
una neonata e una bambina di tre anni. Questo tipo di problema che c’è stato nella
mia famiglia ha fatto in modo che mio padre, ogni volta che si presentava il 16 ottobre,
entrava in un mutismo che cominciava qualche giorno prima e finiva qualche giorno
dopo. Mio papà, al quale era stato vietato naturalmente di andare a scuola e quindi
tutti quei diritti che vengono dati a persone normali e che i tedeschi avevano tolto,
cominciando dal lavoro, con la chiusura delle attività commerciali ecc…
D.
- Quindici uomini e una donna tornarono dai campi di sterminio dopo quella razzia.
Come avvenne il loro reinserimento nella città?
R. - Il reinserimento dei sopravvissuti
è stato una cosa abbastanza drammatica. Quando tornarono non raccontarono subito,
perché con tutto quello che avevano visto non potevano pensare che qualcuno lo avrebbe
creduto. E’ la grande preoccupazione che hanno i negazionisti: cioè il racconto, la
testimonianza, perché una volta finiti i nostri testimoni, rimarrà soltanto a chi
ha raccolto queste testimonianze e quindi figlie, nipoti e tutti gli storici, portare
avanti quello che è la memoria della Shoah, cioè di una tragedia che ha colpito 6
milioni di ebrei e non soltanto di ebrei, ma ha colpito l’intero mondo, l’intero mondo
dei discriminati e dei diversi.
D. - Quest’anno la comunità di Roma celebra
con uno spirito un po’ diverso questo anniversario? Mi riferisco alla recente morte
di Priebke, che ha forse riacutizzato tante cose, tanti ricordi, dolori.
R.
- Guardi, assolutamente no. Il percorso storico per il 70.mo non è variato per quanto
riguarda Priebke. Per noi, è morto uno dei boia che hanno tentato la distruzione del
popolo ebraico, al quale non sono riusciti a dare la parola fine. Il popolo ebraico
è ancora presente, i giovani sono assolutamente presenti e ricordano il passato per
poter avere un futuro. Noi viviamo nel presente tutto quello che è stato nel passato,
con la gioia però - ed è questo il nostro paradosso - di portare avanti quella che
è la memoria dei nostri nonni, dei nostri padri. Noi li chiamiamo testimoni, perché
sono testimoni della memoria.
D. - Anche Papa Francesco ha mandato un Messaggio
per questo 70.mo anniversario, in cui scrive che “la commemorazione potrebbe essere
definita come una memoria futuri”. Un appello alle nuove generazioni a non abbassare
mai la guardia. E’ anche questo il senso, poi, del ricordare…
R. – Sono assolutamente
d’accordo con Papa Francesco. Mi permetto di esserlo. Ho avuto la fortuna di incontrarlo
tre volte ed ogni volta - tra virgolette - non ha mai deluso le mie aspettative. Le
parole del Papa sono state le parole di una persona che tiene alla storia quanto noi,
che tiene alla memoria quanto noi. Dobbiamo lavorare tutti quanti insieme. Non dobbiamo
soltanto non dimenticare, ma dobbiamo fare in modo che quello che è accaduto non accada
più per gli ebrei e per chiunque sia discriminato.
A 70 anni dalla deportazione
degli ebrei romani, la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità ebraica di Roma, come
ogni anno dal 1994, hanno fatto memoria di questo “tragico momento” della vita della
città con un pellegrinaggio della memoria “perché tutti, soprattutto le giovani generazioni,
non dimentichino la deportazione avvenuta durante l’occupazione nazista”. La manifestazione
ha avuto luogo ieri sera e, dopo l’intervento di mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare
di Roma, una marcia silenziosa si è snodata da piazza S.Maria in Trastevere a Largo
16 ottobre 1943. Un cammino a ritroso lungo il percorso dei deportati che dal ghetto
furono condotti al Collegio Militare a Trastevere prima di essere imprigionati nei
treni con destinazione Auschwitz. Alla marcia, oltre a centinaia di giovani delle
scuole romane e a immigrati, hanno partecipato anche: Enzo Camerino, deportato (uno
dei 16 superstiti), Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Renzo Gattegna, presidente
delle Comunità ebraiche italiane, Ignazio Marino, sindaco di Roma, Riccardo Pacifici,
presidente della Comunità ebraica di Roma, Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio.
(R.P.)