La comunità ebraica di Roma ricorda la deportazione dei nazisti, 70 anni fa. La testimonianza
della prof.ssa Di Cave
70 anni fa, il 16 ottobre del 1943, 1024 ebrei di cui oltre 200 bambini del ghetto
di Roma e non solo, venivano deportati dalle SS verso il campo di concentramento di
Auschwitz. Oggi la comunità ebraica della Capitale torna a fare memoria di quel tragico
evento e dell’intero piano di sterminio nazista, guardando al futuro. E’ ciò che anche
il Papa ha sottolineato nel suo messaggio per l’occasione, scrivendo che questa commemorazione
è un appello alle nuove generazioni a "non lasciarsi trascinare da ideologie, a non
giustificare mai il male, a non abbassare la guardia contro l'antisemitismo e contro
il razzismo". Ma ripercorriamo il dramma di 70 anni fa attraverso le parole di Elvira
Di Cave, presidente della Consulta della Comunità ebraica di Roma e primario all’ospedale
israelitico della Capitale. L'intervista è di Adriana Masotti:
R. - Il 16 ottobre
del 1943 era l’ultimo giorno di Sukkot, la “Festa delle capanne”, ed era Shabbat,
praticamente il sabato ebraico. Alle 5.15 di quel mattino, una giornata piovosa, i
tedeschi arrivarono con i camion e bloccarono tutte le vie di accesso e quindi di
uscita dal Portico di Ottavia, l’antico ghetto. Cominciarono a sparare in aria e alle
5.30 fecero irruzione e quindi cominciò la vera e propria razzia. In via della Luce,
numero 3, che è poco lontano dal Portico di Ottavia, la mia famiglia - tranne mio
papà - è stata completamente deportata, nelle persone di mio nonno, mia nonna, le
mie zie e le mie cugine, peraltro una neonata e una bambina di tre anni. Questo tipo
di problema che c’è stato nella mia famiglia ha fatto in modo che mio padre, ogni
volta che si presentava il 16 ottobre, entrava in un mutismo che cominciava qualche
giorno prima e finiva qualche giorno dopo. Mio papà, al quale era stato vietato naturalmente
di andare a scuola e quindi tutti quei diritti che vengono dati a persone normali
e che i tedeschi avevano tolto, cominciando dal lavoro, con la chiusura delle attività
commerciali ecc…
D. - Quindici uomini e una donna tornarono dai campi di sterminio
dopo quella razzia. Come avvenne il loro reinserimento nella città?
R. - Il
reinserimento dei sopravvissuti è stato una cosa abbastanza drammatica. Quando tornarono
non raccontarono subito, perché con tutto quello che avevano visto non potevano pensare
che qualcuno avrebbe creduto. E’ la grande preoccupazione che hanno i negazionisti:
cioè il racconto, la testimonianza, perché una volta finiti i nostri testimoni, rimarrà
soltanto a chi ha raccolto queste testimonianze e quindi figlie, nipoti e tutti gli
storici, portare avanti quello che è la memoria della Shoah, cioè di una tragedia
che ha colpito 6 milioni di ebrei e non soltanto di ebrei, ma ha colpito l’intero
mondo, l’intero mondo dei discriminati e dei diversi.
D. - Quest’anno la comunità
di Roma celebra con uno spirito un po’ diverso questo anniversario? Mi riferisco alla
recente morte di Priebke, che ha forse riacutizzato tante cose, tanti ricordi, dolori.
R.
- Guardi, assolutamente no! Noi stiamo preparando questo 70.mo senza variare minimante
il nostro percorso storico per quanto riguarda Priebke. Per noi è morto uno dei boia
che hanno tentato la distruzione del popolo ebraico, al quale non sono riusciti a
dare la parola fine. Il popolo ebraico è ancora presente, i giovani sono assolutamente
presenti e ricordano il passato per poter avere un futuro. Noi viviamo nel presente
tutto quello che è stato nel passato, con la gioia però - ed è questo il nostro paradosso
- di portare avanti quella che è la memoria dei nostri nonni, dei nostri padri. Noi
li chiamiamo testimoni, perché sono testimoni della memoria.
D. - Anche Papa
Francesco ha mandato un messaggio per questo 70.mo anniversario. Nel messaggio scrive
che “la commemorazione potrebbe essere definita come una memoria futuri”. Un appello
alle nuove generazioni a non abbassare mai la guardia. E’ anche questo il senso, poi,
del ricordare…
R. – Sono assolutamente d’accordo con Papa Francesco. Mi permetto
di esserlo. Ho avuto la fortuna di incontrarlo tre volte ed ogni volta - tra virgolette
- non ha mai deluso le mie aspettative. Le parole del Papa sono state le parole di
una persona che tiene alla storia quanto noi, che tiene alla memoria quanto noi. Dobbiamo
lavorare tutti quanti insieme: non dobbiamo soltanto non dimenticare, ma dobbiamo
fare in modo che quello che è accaduto, non accada più per gli ebrei e per chiunque
sia discriminato.
A 70 anni dalla deportazione degli ebrei romani, la Comunità
di Sant’Egidio e la Comunità ebraica di Roma, come ogni anno dal 1994, faranno memoria
di questo “tragico momento” della vita della città con un pellegrinaggio della memoria
“perché tutti, soprattutto le giovani generazioni, non dimentichino la deportazione
avvenuta durante l’occupazione nazista”. La manifestazione è indetta per oggi alle
18,45 e prevede, dopo l’intervento di mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare di Roma,
una marcia silenziosa da piazza S.Maria in Trastevere a Largo 16 ottobre 1943. Un
cammino a ritroso lungo il percorso dei deportati che dal ghetto furono condotti al
Collegio Militare a Trastevere prima di essere imprigionati nei treni con destinazione
Auschwitz. Alla marcia, oltre a centinaia di giovani delle scuole romane e a immigrati,
parteciperanno anche: Enzo Camerino, deportato (uno dei 16 superstiti), Riccardo Di
Segni, rabbino capo di Roma, Renzo Gattegna, presidente delle Comunità ebraiche italiane,
Ignazio Marino, sindaco di Roma, Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica
di Roma, Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio. (R.P.)