Centrafrica: 60 morti in scontri tra Seleka e gruppi di autodifesa. Appello alla pace
di vescovi e leader musulmani
In Centrafrica, circa 60 persone sono state uccise, nelle ultime 24 ore, in scontri
tra milizie di autodifesa locali ed ex ribelli musulmani "Seleka". Le violenze si
sono innescate nella zona mineraria di Garga, villaggio a 250 chilometri a Nord-Ovest
della capitale Bangui. Secondo fonti ufficiali, tra le vittime ci sono molti civili,
decine sono i feriti. Il servizio di Massimiliano Menichetti:
In Centrafrica
la pace fatica a concretizzarsi. A poco sono valsi, finora, gli sforzi del presidente
di transizione Michel Djotodia, impegnato a neutralizzare i miliziani "Seleka", la
coalizione di movimenti ribelli, ufficialmente sciolta a settembre, che ha preso il
potere lo scorso marzo, costringendo alla fuga il Ccpo di Stato, Francois Bozizè.
In molte località del Paese, si sono formati gruppi di autodifesa, che più volte hanno
attaccato gli ex ribelli. Da qui le ritorsioni sanguinose dei gruppi armati molti
dei quali provenienti dal Ciad e dal Sudan. 60 morti il bilancio dell’ultimo scontro
a Garga, decine i feriti. Il presidente Djotodia ha più volte invocato un intervento
internazionale rivolgendosi anche, tramite la Francia, al Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite. Finora però senza risultato.
Sulla difficile situazione
nel Paese, Massimiliano Menichetti ha intervistato suor Elianna, religiosa
comboniana da due anni missionaria a Bangui:
R. - La situazione
è molto complessa. Recentemente, nel mese di settembre, il presidente ha ufficialmente
sciolto i "Seleka", ma, quest’atto ufficiale in realtà non ha avuto conseguenze, perché
il gruppo dei ribelli è composto da tante realtà che esistono tuttora. Questi gruppi
continuano sostanzialmente a dettare la loro legge, ad attaccare le popolazioni, a
rubare, a saccheggiare … E questo accade da mesi, ogni giorno, e tutto ciò provoca
ribellione e rabbia che, purtroppo, in alcune zone sfocia nella formazione di gruppi
di autodifesa che girano con fucili da caccia. Questo, sta aumentando la tensione
tra la comunità cattolica e la comunità musulmana.
D. – Appunto leggiamo anche
di scontri tra realtà cristiane e musulmane …
R. - Il problema è che i ribelli
"Seleka" hanno sempre attaccato la comunità cattolica e quindi adesso questa reagisce
contro la comunità musulmana. Le vendette sono "religiose", anche se – ribadisco -
il colpo di Stato di marzo, non ha origini religiose; purtroppo però sta sfociando
in questo.
D. - Quindi bisogna lavorare affinché questo non accada …
R.
- Sì, e si sta facendo, perché i vescovi continuano a insistere, a chiamare la popolazione
a sentimenti costruttivi, di unità e di comunione; continuano a recarsi insieme -
vescovi e rappresentanti della Chiesa protestante e della confessione musulmana -
nelle zone vittime dei più gravi conflitti. Recentemente sono andati a Bossangoa,
a Bangassou … Sollecitano la popolazione a costruire il futuro e a vivere il presente
in questa prospettiva di dialogo e di convivenza, anche perché questa era la realtà
fino al colpo di Stato.
D. - L’attuale presidente di transizione Djotodia ha
anche chiesto l’intervento della comunità internazionale per cercare di sedare le
violenze; finora nessuno risultato. Quale potrebbe essere una via?
R. - In
questo momento - come ha sottolineato il gruppo dei rappresentati della Chiesa e della
società civile che sono andati al summit delle Nazioni Unite a New York – è importante
una presenza militare non centrafricana, dell’Onu. Serve efficacia nel disarmare questi
ribelli. Questa situazione, che si protrae da mesi, sta generando violenza, povertà
e miseria.
D. - E in questo contesto qual è l’azione delle comunità cristiane?
R.
- Duplice direi. Da una parte, riportare l’assistenza primaria a queste popolazioni
più toccate, ferite soprattutto per gli sfollati che hanno perso tutto e dall’altra
parte, questo appello continuo al dialogo e alla comunione. In tutto questo contesto
però non mancano i segni di speranza, che consentono di riprendere a vivere. Uno di
questi è dato anche dalla vitalità della Chiesa, nonostante tutto. Un paio di settimane
fa si è celebrato l’inizio dell’Anno pastorale con i rappresentanti di tutta la diocesi
e con sette ordinazioni sacerdotali. Giovani che, nonostante hanno vissuto sulla loro
pelle gli attacchi alla Chiesa, scelgono di dare la vita per il Vangelo e per un
mondo più giusto e più fraterno. Penso che questo, in questa situazione, sia un segno
e messaggio di grande speranza.