2013-10-09 07:16:16

Smantellamento arsenale siriano. Per l’Onu è una missione senza precedenti. Putin: sarà fatto entro un anno


“Una missione senza precedenti e non priva di pericoli": così il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha definito il piano per lo smantellamento dell'arsenale chimico siriano, presentato ai membri del Consiglio di Sicurezza. Auspicata una missione comune Onu-Opac. Ottimismo del presidente russo Putin secondo il quale gli esperti "riusciranno” in breve tempo “ad eliminare l'arsenale di Damasco”, intanto sul terreno non si arrestano gi scontri. Marina Calculli:RealAudioMP3

Per il presidente russo Vladimir Putin la distruzione completa dell’arsenale chimico siriano è realizzabile nell’arco di un anno. E questo soprattutto grazie alla fondamentale collaborazione del regime di Damasco, che il capo del Cremlino non ha mancato di ricordare, non prima però di averlo fatto fare al Segretario di Stato americano John Kerry. Quest’ultimo ha per l’appunto ringraziato la Siria nei giorni scorsi per la sua apertura. Un’altra impaccabile mossa diplomatica per una Russia che sembra non averne sbagliata una nel suo progetto di riabilitare Asad presso la comunità internazionale. Nel frattempo l’Opac (l’Organizzazione per la proibizione di armi chimiche) ha annunciato l’invio di una seconda squadra di esperti che monitoreranno la demolizione delle armi letali siriane. Ban Ki-moon plaude all’inedita cooperazione Onu-Opac, un binomio senza precedenti ma destinato a dare nuovi sviluppi nelle relazioni tra il palazzo di vetro e altri enti internazionali. Intanto, però, all’interno della Siria si continua a combattere. L'aviazione del governo ha bombardato ieri la provincia nord-occidentale di Idlib, per contrastare un'offensiva lanciata dai ribelli e volta a catturare due basi militari strategiche. I bombardamenti, secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, sono avvenuti nei pressi della località di Maarat al-Numan, mentre attorno alla base di Wadi al-Deif si continua a combattere.

Sulla condizione economico–sociale che si vive oggi nel Paese, Adriana Masotti ha raccolto la testimonianza di Giovanna, un’italiana in questi giorni a Roma, ma che da anni abita in Siria:RealAudioMP3

R. - In Siria, la vita continua a essere terribilmente difficile per tutti: per la paura, per lo stress e la povertà che comincia a toccare larghissime fasce della popolazione. I prezzi sono alle stelle, la gente pensa solo a garantirsi il cibo perché tutto il resto è diventato superfluo. In questi ultimi giorni, per esempio, in certe zone di Aleppo una bombola di gas ha raggiunto il presso di 18 mila lire siriane che corrispondono a un buon stipendio mensile e la rabta, il pacchetto di otto pezzi del buon pane arabo, adesso sfiora le 800 lire, mentre l’anno scorso lo si trovava a 45. Le scuole hanno riaperto da poco, ma un quaderno che prima costava 100 lire, adesso ne costa 600. L’insicurezza nel Paese è sovrana: in tante località o quartieri delle città si convive con il rischio, e quando si esce di casa ci si chiede: “Rientreremo?”. Poi per quanto riguarda i rapporti tra la gente, in questi due anni e mezzo di conflitto ho visto il dialogo diventare sempre più difficile e a volte diventare impossibile; ho visto calpestata la cultura di convivenza pacifica dei siriani anche se la gente, in tante parte del Paese, continua a voler vivere insieme. Bisogna poi dire che l’odio tra sunniti e alawiti diventa sempre più reale. A livello di popolo con l’inizio delle violenze, è poi cominciata a serpeggiare tra i cristiani la paura anche per l’entrata nel Paese di gruppi armati terroristici dichiaratamente ostili ai cristiani, i quali possono essere uccisi solo perché portano questo nome.

D. - E infatti in tanti hanno lasciato il Paese. Ma tanti altri hanno deciso di restare. Che cosa li ha spinti a rimanere?

R. - Hanno scoperto che è bene restare nel proprio Paese perché hanno preso coscienza di avere un ruolo come il lievito nella massa. Noi ci sentiamo con tanti alla scuola di Gesù, che ci ripete: “Ama! Amate! Restate uniti! Perdonate!”. E allora, ed è quasi un miracolo che ci stupisce, viviamo per così dire fuori di noi, per gli altri, non pensiamo che ad amare, ad aiutare con azioni concrete: c’è chi ha perso la casa, il lavoro. Continuiamo soprattutto a disarmarci di fronte ai risentimenti, alla rabbia che si può provare nel cuore. E questo ci fa restare in una certa “normalità”.

D. - Anche lei, anche se appunto di origini straniere, ha deciso di restare in Siria. Qual è l'esperienza che sta vivendo in questi anni?

R. - Direi che è una forte esperienza di Vangelo. Di fronte all'assurdità della guerra e alle domande che la morte e la distruzione suscitano, la risposta non è mai scontata: ogni volta devo pescarla in fondo al cuore, alla mente, dove risuona ben chiaro quel grido di Gesù: "Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?". E, a volte, riesco solo a ripetere: "Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito!". Un giorno, dopo l'ennesimo attentato mi sono chiesta se la mia vita non avesse forse più senso in un altro posto. Mi ha sorpreso la forza e la chiarezza della risposta che mi sono trovata dentro: "No! Perchè tu vivi per amare e qui o là è la stessa cosa!". Ed è questo che mi convince a continuare, insieme agli altri, a restare in Siria.

D. - Come per ogni guerra, è difficile da fuori conoscere la verità di quanto sta accadendo a livello politico. Ci può aiutare a fare un po’ di chiarezza?

R. - Io non mi sento all’altezza di fare un’analisi politica, però posso testimoniare che la crisi ha colto impreparata la stragrande maggioranza dei siriani. Di fronte al vacillare della sicurezza e della pace c’era chi voleva che questa sicurezza e questa pace rimanessero a tutti i costi. C’era chi invece in nome della libertà, delle riforme, o anche di altri interessi era pronto a metterle in gioco. Dall’inizio delle manifestazioni di protesta, gran parte della popolazione era con il presidente, poiché vedeva in lui la persona capace di procedere sulla via delle riforme e di evitare al Paese di cadere nell’anarchia. C’era poi una parte della popolazione che subito ha dichiarato la mancanza di fiducia nel regime, ma ha mantenuto il desiderio che la Siria rimanesse unita. Invece, purtroppo, poche settimane dopo l’inizio delle prime manifestazioni, abbiamo visto che forze di provenienza - anche lontana - si sono infiltrate nel Paese per dividere e frazionare il tessuto sociale che fino ad allora si appoggiava sulla laicità e armi e soldi sono stati distribuiti in grande abbondanza da Paesi vicini e lontani. Poi nel corso del conflitto, si sono manifestati altri progetti, come per esempio, quello di islamizzazione del Paese secondo modelli integralisti e quello economico legato alla produzione del gas.

D. - Si è arrivati ad un passo dall’intervento armato dei Paesi occidentali, per fortuna l’ipotesi sembra ora che si sia allontanata. Che cosa potrebbe invece veramente portare la pace in Siria?

R. - Mi sembra che non si uscirà da questa guerra civile se non con il cessare immediato dei combattimenti e con la volontà sincera di dialogo da entrambe le parti guardando al bene della popolazione che è la vera ricchezza del Paese.

D. - Che cosa può fare l’opinione pubblica, ciascuno di noi, le comunità cristiane per sostenere tutto il popolo siriano?

R. - Occorrerebbe che tutti diventassimo delle sentinelle della pace, cioè non credere assolutamente mai che la via della guerra sia quella giusta. Occorrerebbe, forse, anche uscire da una certa pigrizia intellettuale che ci lascia contenti delle informazioni ricevute, senza approfondire, e ancora promuovere sicuramente, come già si sta facendo, aiuti umanitari e pregare come a Piazza San Pietro. Io non posso descriverle che cosa abbia significato per la Siria quella giornata di digiuno e di preghiera del 7 settembre. Lì la speranza è sbocciata. Una mia collega musulmana ha commentato: “Noi abbiamo capito molto bene oggi come in tutto il mondo i cristiani fanno la loro guerra all’odio con la preghiera e come sono sicuri che arriveranno alla pace proprio attraverso la preghiera”.







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