Una catastrofe prevedibile: un libro ricostruisce la tragedia del Vajont 50 anni fa
Era il 9 ottobre quando, 50 anni fa, avvenne la tragedia della diga del Vajont. Alle
22.40 circa, una frana precipitava dal monte Toc sul sottostante bacino. La tracimazione
violenta di una grande massa d’acqua, scavalcando la diga, provocava 1917 vittime
e la distruzione di interi paesi tra cui Longarone, in provincia di Belluno. Le Nazioni
Unite lo definirono un caso esemplare di disastro evitabile. Per ricordare quell’evento,
alla vigilia dell’anniversario, oltre mille geologi si sono incontrati a Longarone
per una Conferenza internazionale in cui, tra l’altro, è stato presentato un volume
di Alvaro Valducci e di Riccardo Massimiliano Menotti dal titolo: “9 ottobre 1963.
Che Iddio ce la mandi buona. La frana del Vajont” e un sottotitolo che ancora ferisce
le popolazioni della zona: “Memoria storica di una catastrofe prevedibile”. Una prevedibilità
ormai accertata? Adriana Masotti lo ha chiesto a Gian Vito Graziano,
presidente del Consiglio Nazionale geologi:
R. – Fu accertata
anche in sede giudiziaria, in secondo grado di giudizio però, quello definitivo. A
una prevedibilità della frana, e probabilmente a tutto l’aspetto del territorio, non
fu dato forse il peso meritato. Noi, con questo libro, con un altro punto di vista
– quello di due geologi che vennero qui all’indomani della catastrofe – abbiamo un
po’ ricostruito quello che realmente è stato e – attraverso la ricerca delle fonti
– siamo arrivati alla conclusione che questa tragedia poteva essere evitata. Il titolo
che abbiamo voluto dare “Che Dio ce la mandi buona!”, è un post scriptum del
direttore dei lavori: la mattina del 9 ottobre del ’63, quando ricevette una telefonata
dalla diga che lo informava che stava crollando tutto, il direttore scrisse immediatamente
al suo collaboratore tecnico chiedendo di avviare determinate operazioni di svaso
dell’acqua e conclude scrivendo proprio “Che Dio ce la mandi buona”, perché in quel
momento percepì che le cose stavano veramente precipitando. Troppi errori: da quando
si è iniziata la progettazione, fino all’ultimo giorno quando si poteva far evacuare
la gente ed invece non si fece.
D. – In poche parole, ci può sintetizzare le
conclusioni dello studio che è stato fatto dai geologi?
R. – Sostanzialmente,
lo studio dice: la diga non andava fatta lì, ma – come da prime ipotesi – il corpo
diga, quindi lo sbarramento, doveva essere costruito più a monte, in una zona esente
da frane. Non ci si è accorti subito, ma solo in corso d’opera, che lì in realtà c’era
una frana, anche di notevoli dimensioni. Da una parte ci sono stati geologi che hanno
sbagliato perché hanno sottovalutato la situazione, dall’altra geologi che invece
videro bene e che allertarono chi però non volle sentire. Soprattutto, ritengo che
negli ultimi mesi prima della catastrofe ci siano stati comportamenti contraddittori
di chi doveva controllare. Coloro che facevano parte di quegli organismi statali che
avrebbero dovuto vigilare e che invece non l’hanno fatto.
D. – In una lapide
presso la diga è scritto: “Per negligenza e per sete d’oro”…
R. – Sì, se non
si viene qui non si ha realmente la consapevolezza né di quello che è successo, né
del fatto che il Vajont è una ferita ancora aperta. Per la gente del luogo quella
è stata una strage – un eccidio di Stato, come lo si vuol chiamare – e soprattutto
si sentono oltraggiati anche da quello che è stato il comportamento degli apparati
burocratici che non hanno mai difeso questa gente, ma in realtà hanno continuato a
oltraggiarla. Vivono le sentenze come un ulteriore oltraggio ai sopravvissuti ed alla
memoria di chi non c’è più.
D. – Dopo 50 anni, quale insegnamento resta per
l’oggi e per il futuro da questo evento?
R. – Rimane moltissimo, perché il
Vajont si studia molto, si studia in tutte le università italiane. È un monito da
cui è nata la geologia applicata. In qualche modo, la gente rimasta coinvolta ha lasciato
ai geologi un’eredità: quella di fare bene, di usare l’etica e non piegarsi spesso
ad interessi di tipo finanziario ed economico.
D. – Al di là della vostra buona
volontà, quanto in Italia oggi si fa attenzione alla questione della sicurezza legata
al territorio prima di dare il via ad opere e costruzioni?
R. – Se guardo alla
normativa, perfettibile quanto vogliamo, comunque garantisce che l’opera venga costruita
in sicurezza. Se guardo alla reale consapevolezza da parte di chi realizza un’opera,
da parte di chi l’approva, devo dire che ancora oggi l’inserimento di un’opera in
un contesto territoriale è vista come una parte marginale. Si privilegia molto l’aspetto
ingegneristico, tecnicistico, a discapito invece di quello che è appunto l’inserimento
nel contesto e quindi la sicurezza. Questo è un fatto più culturale che normativo
e ce ne dovremmo render conto tutti. Occorre soprattutto che siano i cittadini a pretendere
che questo avvenga.