Portare l'amore e l'unità: una testimonianza sull'impegno dei cristiani rimasti in
Siria
Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha proposto al Consiglio di sicurezza
la creazione di una "missione comune" dell'Onu e dell'Organizzazione per la proibizione
delle armi chimiche per eliminare l'arsenale chimico siriano. Una missione avrebbe
una base operativa a Damasco e un'altra arretrata d'appoggio a Cipro. Intanto sul
terreno continuano le violenze: l'aviazione governativa ha bombardato ieri le forze
dei ribelli che nella provincia nord-occidentale di Idlib hanno lanciato un'offensiva
per catturare due basi militari strategiche. Sulla condizione economico–sociale che
si vive oggi nel Paese, Adriana Masotti ha raccolto la testimonianza di Giovanna,
un’italiana in questi giorni a Roma, ma che da anni abita in Siria:
R. - In Siria,
la vita continua a essere terribilmente difficile per tutti: per la paura, per lo
stress e la povertà che comincia a toccare larghissime fasce della popolazione. I
prezzi sono alle stelle, la gente pensa solo a garantirsi il cibo perché tutto il
resto è diventato superfluo. In questi ultimi giorni, per esempio, in certe zone di
Aleppo una bombola di gas ha raggiunto il presso di 18 mila lire siriane che corrispondono
a un buon stipendio mensile e la rabta, il pacchetto di otto pezzi del buon pane arabo,
adesso sfiora le 800 lire, mentre l’anno scorso lo si trovava a 45. Le scuole hanno
riaperto da poco, ma un quaderno che prima costava 100 lire, adesso ne costa 600.
L’insicurezza nel Paese è sovrana: in tante località o quartieri delle città si convive
con il rischio, e quando si esce di casa ci si chiede: “Rientreremo?”. Poi per quanto
riguarda i rapporti tra la gente, in questi due anni e mezzo di conflitto ho visto
il dialogo diventare sempre più difficile e a volte diventare impossibile; ho visto
calpestata la cultura di convivenza pacifica dei siriani anche se la gente, in tante
parte del Paese, continua a voler vivere insieme. Bisogna poi dire che l’odio tra
sunniti e alawiti diventa sempre più reale. A livello di popolo con l’inizio delle
violenze, è poi cominciata a serpeggiare tra i cristiani la paura anche per l’entrata
nel Paese di gruppi armati terroristici dichiaratamente ostili ai cristiani, i quali
possono essere uccisi solo perché portano questo nome.
D. - E infatti in tanti
hanno lasciato il Paese. Ma tanti altri hanno deciso di restare. Che cosa li ha spinti
a rimanere?
R. - Hanno scoperto che è bene restare nel proprio Paese perché
hanno preso coscienza di avere un ruolo come il lievito nella massa. Noi ci sentiamo
con tanti alla scuola di Gesù, che ci ripete: “Ama! Amate! Restate uniti! Perdonate!”.
E allora, ed è quasi un miracolo che ci stupisce, viviamo per così dire fuori di noi,
per gli altri, non pensiamo che ad amare, ad aiutare con azioni concrete: c’è chi
ha perso la casa, il lavoro. Continuiamo soprattutto a disarmarci di fronte ai risentimenti,
alla rabbia che si può provare nel cuore. E questo ci fa restare in una certa “normalità”.
D.
- Anche lei, anche se appunto di origini straniere, ha deciso di restare in Siria.
Qual è l'esperienza che sta vivendo in questi anni?
R. - Direi che è una forte
esperienza di Vangelo. Di fronte all'assurdità della guerra e alle domande che la
morte e la distruzione suscitano, la risposta non è mai scontata: ogni volta devo
pescarla in fondo al cuore, alla mente, dove risuona ben chiaro quel grido di Gesù:
"Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?". E, a volte, riesco solo a ripetere:
"Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito!". Un giorno, dopo l'ennesimo attentato
mi sono chiesta se la mia vita non avesse forse più senso in un altro posto. Mi ha
sorpreso la forza e la chiarezza della risposta che mi sono trovata dentro: "No! Perchè
tu vivi per amare e qui o là è la stessa cosa!". Ed è questo che mi convince a continuare,
insieme agli altri, a restare in Siria.
D. - Come per ogni guerra, è difficile
da fuori conoscere la verità di quanto sta accadendo a livello politico. Ci può aiutare
a fare un po’ di chiarezza?
R. - Io non mi sento all’altezza di fare un’analisi
politica, però posso testimoniare che la crisi ha colto impreparata la stragrande
maggioranza dei siriani. Di fronte al vacillare della sicurezza e della pace c’era
chi voleva che questa sicurezza e questa pace rimanessero a tutti i costi. C’era chi
invece in nome della libertà, delle riforme, o anche di altri interessi era pronto
a metterle in gioco. Dall’inizio delle manifestazioni di protesta, gran parte della
popolazione era con il presidente, poiché vedeva in lui la persona capace di procedere
sulla via delle riforme e di evitare al Paese di cadere nell’anarchia. C’era poi una
parte della popolazione che subito ha dichiarato la mancanza di fiducia nel regime,
ma ha mantenuto il desiderio che la Siria rimanesse unita. Invece, purtroppo, poche
settimane dopo l’inizio delle prime manifestazioni, abbiamo visto che forze di provenienza
- anche lontana - si sono infiltrate nel Paese per dividere e frazionare il tessuto
sociale che fino ad allora si appoggiava sulla laicità e armi e soldi sono stati distribuiti
in grande abbondanza da Paesi vicini e lontani. Poi nel corso del conflitto, si sono
manifestati altri progetti, come per esempio, quello di islamizzazione del Paese secondo
modelli integralisti e quello economico legato alla produzione del gas.
D.
- Si è arrivati ad un passo dall’intervento armato dei Paesi occidentali, per fortuna
l’ipotesi sembra ora che si sia allontanata. Che cosa potrebbe invece veramente portare
la pace in Siria?
R. - Mi sembra che non si uscirà da questa guerra civile
se non con il cessare immediato dei combattimenti e con la volontà sincera di dialogo
da entrambe le parti guardando al bene della popolazione che è la vera ricchezza del
Paese.
D. - Che cosa può fare l’opinione pubblica, ciascuno di noi, le comunità
cristiane per sostenere tutto il popolo siriano?
R. - Occorrerebbe che tutti
diventassimo delle sentinelle della pace, cioè non credere assolutamente mai che la
via della guerra sia quella giusta. Occorrerebbe, forse, anche uscire da una certa
pigrizia intellettuale che ci lascia contenti delle informazioni ricevute, senza approfondire,
e ancora promuovere sicuramente, come già si sta facendo, aiuti umanitari e pregare
come a Piazza San Pietro. Io non posso descriverle che cosa abbia significato per
la Siria quella giornata di digiuno e di preghiera del 7 settembre. Lì la speranza
è sbocciata. Una mia collega musulmana ha commentato: “Noi abbiamo capito molto bene
oggi come in tutto il mondo i cristiani fanno la loro guerra all’odio con la preghiera
e come sono sicuri che arriveranno alla pace proprio attraverso la preghiera”.