Egitto, attenzione nel Sinai e a Sharm. La crisi politica e le pesanti ricadute economiche
Non si ferma la violenza in Egitto dopo una domenica di sangue. Le forze dell'ordine
sono in massima allerta a Sharm el Sheikh e Taba, sul mar Rosso e nei porti lungo
il canale di Suez. Alessandro Guarasci
Ieri
gli scontri tra manifestanti islamisti e forze di sicurezza che hanno fatto 53 morti
e 271 feriti . Oggi un'autobomba e' esplosa davanti all'ingresso principale di una
sede della Direzione della Sicurezza a al-Tur, capoluogo della provincia del Sinai
Meridionale. Fonti ospedaliere hanno riferito che le vittime erano due reclute. Altre
48 persone sono rimaste ferite a causa dell'esplosione. Nella stessa zona qualche
ora prima in una cittadina sul Canale di Suez, una pattuglia mista di Esercito e Polizia
era caduta in un'imboscata a un posto di blocco: morti due agenti e tre soldati, un
cui commilitone ha riportato gravi lesioni. Situazione tesa anche al Cairo, dove un'installazione
per comunicazioni satellitare è stata colpita nella notte da razzi Rpg. Intanto, il
presidente Adly Mansour, nel suo primo viaggio all'estero e' a Gedda per ringraziare
il re saudita Abdullah per il decisivo sostegno personale fornito al nuovo corso post Fratelli
Mususlmani.
Una contrapposizione fortissima, quella tra militari e Fratelli
Musulmani, che sta trascinando il Paese verso una pericolosa destabilizzazione sia
politica che finanziaria. Sulla situazione economica in cui versa il “gigante” mediorientale,
Salvatore Sabatino ha intervistato l’economista Giovanni Marseguerra:
R. – Certamente,
le aree nordafricane, mediorientali – e l'Egitto in particolare – in questo momento
sono attraversate da una forte instabilità che non è solo politica, ma che va ricercata
anche nel profondo disagio economico e sociale che permea questi Paesi. È difficile
pensare si possano fare passi avanti dal punto di vista politico se prima non si affrontano
questi disagi.
D. – Questi disagi poi hanno determinato le "primavere arabe".
Quanto influisce tutta questa situazione anche sulla crisi economica globale?
R.
– Dico che si tratta di un effetto gravissimo. Si parla di qualcosa come 200 milioni
di giovanissimi arabi disoccupati: parliamo dei giovani al di sotto 24 anni presenti
nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Questi ragazzi si trovano senza lavoro,
senza prospettive future, se non quella dell’emigrazione. È un gap enorme,
dovuto anche alla mentalità patriarcale che vige in molte di queste zone, a un deficit
di istruzione, a un mancato indirizzamento di questi ragazzi verso le competenze richieste
dal mercato del lavoro. Tutto questo ha creato una pletora di burocrati e loro sono
rimasti disoccupati quando sono arrivati i tagli al settore pubblico.
D. –
E tutto questo, ovviamente in un mondo globalizzato, è seriamente un problema…
R.
– È un problema perché poi si riflette nelle attività migratorie che sono diventate
un fenomeno assolutamente globale. Si pensi che nel mondo ci sono 232 milioni di persone
che hanno lasciato il loro Paese per vivere in un altro. Ora, di fronte a questi dati,
credo che qualunque considerazione economica debba lasciare il posto a una riflessione
più profonda. Qui si tratta veramente di questioni geopolitiche: l’economia e la politica
si mescolano in maniera inscindibile.
D. – Queste destabilizzazioni hanno avuto
ripercussioni anche sul prezzo del petrolio, pur non essendo questi Paesi direttamente
produttori. Come mai allora questo innalzamento dei prezzi?
R. – La Siria,
ad esempio, che è stata al centro dell’interesse mondiale negli ultimi mesi, non è
un grandissimo produttore di petrolio, ma il timore che un eventuale conflitto e l’instabilità
si propagassero ai Paesi limitrofi, che sono forti esportatori di petrolio, ha fatto
sì che i prezzi stessi scontassero questa paura.