Lampedusa: 185 le vittime recuperate. Sull'isola l'inviato del Papa mons. Krajewski
Nelle acque attorno a Lampedusa, continua il recupero dei corpi delle vittime del
naufragio di giovedì, ed è salito a 194 il numero dei morti accertati; allarme anche
per le condizioni di accoglienza. E mentre il governo italiano affronta il tema della
legge sull’immigrazione, Papa Francesco ha inviato sull’isola l’elemosiniere, mons.
Konrad Krajewski; inoltre, mercoledì sarà sull’isola il presidente della Commissione
europea Barroso. Ascoltiamo Davide Maggiore:
Il mare continua
a restituire le sue vittime, e il dramma appare sempre più grave: sott’acqua, racconta
un sub, ci sono “pile di uomini e donne”. “Non possiamo più accettare tragedie come
questa”, ha detto il ministro italiano per l’Integrazione, Cécile Kyenge, dopo l’arrivo
della motovedetta con i corpi. Ad impartire la benedizione alle salme è stato mons.
Krajewski, incaricato dal Papa di portare all’isola la sua solidarietà, e di individuare
le esigenze umanitarie. In questo senso, preoccupa il centro di prima accoglienza,
in cui si trovano più di 950 persone, ma che potrebbe ospitarne solo 250; un appello
a trasferire almeno i minori, quasi 230, è arrivato da Save the Children. Anche Kyenge
ha parlato di “condizioni vergognose”, annunciando che in settimana si discuterà di
revisione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione; particolarmente contraria la Lega
Nord. Di soluzioni politiche parleranno, martedì, anche i ministri dell’interno europei:
il giorno dopo, arriverà a Lampedusa Barroso, chiamato dal governo italiano - ha spiegato
il premier Letta - per verificare “di persona” la situazione.
A livello internazionale
in questi giorni ci si interroga su cosa non abbia funzionato finora nelle politiche
migratorie europee, visto che dal ’98 ad oggi sono morte oltre 19mila persone lungo
le frontiere comunitarie. Quali i motivi per cui così tanti migranti hanno perso la
vita? Ascoltiamo Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati
(Cir), intervistato da Giada Aquilino:
R. - Queste
persone sono morte perché cercavano disperatamente di entrare in Europa, in questo
caso in Italia, ma anche verso Malta, la Grecia, la Spagna. Non avevano alternativa
che arrivare in modo irregolare sui barconi e mettere la loro vita a rischio. Ormai,
è da una ventina di anni che – con il sistema Schengen – abbiamo costruito un muro
intorno all’Europa: abbiamo un regime di ingresso che rende impossibile per un qualunque
cittadino – africano o spesso anche latinoamericano – arrivare in Europa in modo regolare,
perché non viene dato un visto. Questo è il prodotto di una politica di chiusura.
Il sistema Schengen a noi cittadini comunitari conviene molto perché permette di viaggiare
da un Paese all’altro senza controlli alle frontiere interne; ma penalizza il resto
del mondo, soprattutto chi fugge dal proprio Paese.
D. – Dopo la tragedia
di Lampedusa il capo dello Stato italiano Napolitano ha chiesto con forza di “stroncare
il traffico criminale di esseri umani”, sottolineando che “non è accettabile che vengano
negati ad una istituzione creata dalla Commissione europea – come il Frontex – mezzi
adeguati per intervenire senza indugio”…
R. – E’ certamente necessario poter
sorvegliare o avere un monitoraggio di tutto quello che succede e succederà nel canale
di Sicilia o nel Mediterraneo in generale. Dobbiamo andare però alla radice del problema.
Abbiamo apprezzato quando il presidente Napolitano ha parlato della necessità di una
legge organica sulla richiesta di asilo in Italia, che però non abbiamo. Dobbiamo
comunque considerare che la nostra legge deve ormai rispecchiare le normative comunitarie
che naturalmente ci sono ma che non prevedono la possibilità di presentare una richiesta
di asilo fuori dai confini europei. Le persone devono per forza essere fisicamente
presenti – ad esempio a Lampedusa – per inoltrare una richiesta di protezione.
D.
– In questo quadro allora a cosa bisogna puntare?
R. – Bisogna puntare alla
direttiva dell’Unione europea, alle procedure di asilo che prevedono che una richiesta
possa essere fatta solo alla frontiera di uno degli Stati membri o all’interno di
questi Paesi, ma in nessun caso fuori dall’Unione europea. Mettiamoci nei panni di
una donna eritrea a Tripoli, in Libia: non può ritornare nel suo Paese; non può rimanere
in Libia dove non ha alcuna possibilità di ottenere asilo; non può andare legalmente
in Europa perché non le daranno mai il visto di ingresso e quindi l’unica scelta che
ha è quella di usare mezzi illegali come i barconi. Bisogna a questo punto aprire
canali di ingresso legali e protetti in Europa, attraverso una modifica dell’approccio,
della direttiva sulle procedure di asilo. Aprire canali che permettano che questa
donna eritrea, così come tutti gli altri rifugiati, possa rivolgersi ad un’ambasciata
dell’Unione Europea o degli Stati membri ed iniziare una procedura di asilo fuori
dal nostro Continente, senza esser costretta ad arrivare fino a Lampedusa.
D.
– Lei ha fatto l’esempio della donna eritrea. Gran parte delle vittime dell’ultimo
naufragio di Lampedusa risultano essere donne. Questo emerge dai racconti fatti dai
superstiti del barcone naufragato. È un dato che ricorre?
R. – Sì. Purtroppo
tra le vittime ci sono tante donne e anche tanti bambini – alcuni non accompagnati
dai familiari – e pochi tra i superstiti. Bisogna ricordare che la situazione in Eritrea
è particolarmente pesante per le donne, a causa di una sorta di servizio militare
obbligatorio senza limiti di tempo; e non vanno dimenticati gli abusi a cui sono esposte
anche nelle caserme del loro Paese. Non è quindi un caso che le donne cerchino di
fuggire ed arrivare disperatamente in Europa.