Lampedusa, recuperati 111 corpi. Alfano: potrebbe non essere l'ultima volta
Sono proseguite per tutta la notte le ricerche di eventuali sopravvissuti al naufragio
di ieri al largo di Lampedusa. Poi le cattive condizioni del tempo hanno imposto uno
stop. Al momento, sono stati recuperati 111 corpi, ma numerose decine sono ancora
intrappolate nel relitto ed anche il mare agitato ostacola le operazioni. Il servizio
di Alessandro Guarasci:
Il bilancio
di 111 morti è purtroppo parziale, nell’isola sono arrivate infatti 140 bare. Uno
dei sub ha raccontato di una “massa di corpi incastrati nella stiva” ed altri “aggrappati
alla fiancata del peschereccio”. Alla Camera, di ritorno da Lampedusa, il ministro
dell’Interno, Angelino Alfano, ha detto che sono state salvate 155 persone, ma che
oltre ai 111 morti vi sono decine di vittime incagliati tra le lamiere del peschereccio,
chiedendo poi di assegnare il Nobel per la pace a Lampedusa. Per Alfano, serve “agire
in Europa e in Africa per contrastare i flussi di immigrazione illegale”. Uomini e
mezzi dell'agenzia Frontex devono vigilare di più sul Mediterraneo. Insomma bisogna
pensare a lungo termine:
"Non c'è ragione per pensare e per sperare che
sara' l'ultima volta".
Tra poco, arriverà anche il presidente della Camera,
Laura Boldrini. Oggi, è lutto non solo a Lampedusa, ma in tutta Italia, e nelle scuole
è stato osservato un minuto di silenzio.
La maggioranza dei migranti era originaria
della Somalia e dell’Eritrea, la prima in guerra dal 1994 e la seconda sconvolta dalla
dittatura. Davide Pagnanelli ha approfondito il dramma umano di queste persone
intervistando don Mussie Zerai, presidente dell’Associazione per la cooperazione
e lo sviluppo “Habeshia”:
R. – Stando
unicamente alle statistiche delle Nazioni Unite, ogni mese solo dall’Eritrea arrivano
duemila nuovi richiedenti asilo nei campi profughi in Sudan. Da lì, si spostano verso
la Libia e dalla Libia verso l’Europa, quindi anche verso l’Italia.
D. – Da
cosa scappano queste persone?
R. – I somali scappano dalla situazione di guerra
che si protrae dal ’94. Gli eritrei sfuggono dalla dittatura, dall’assenza di qualsiasi
libertà, sono costretti ad una vita militare infinita e a vivere quindi uno stato
di schiavitù legalizzato nel Paese in cui vivono. Fuggono per trovare la libertà e
ricostruire un futuro. C’è chi fugge anche dalla fame, specialmente quest’anno che
c’è una forte carestia.
D. – Quali pericoli incontrano durante il cammino?
R.
– Vengono sequestrati, maltrattati e devono spesso pagare riscatti per la loro liberazione.
Moltissime persone, prima ancora di arrivare sulle coste libiche, rimangono paralizzati,
mutilati, feriti... Quindi, i pericoli che devono superare sono tantissimi. Una volta
arrivati in Libia, nei centri di detenzione la situazione non cambia. Sappiamo che
tipo di vita fanno: maltrattamenti, abusi...
D. – Perché non sono stati ancora
creati “corridoi umanitari” che facciano migrare queste persone in sicurezza?
R.
– Soltanto perché manca la volontà politica di agire e accogliere queste persone.
Spesso si specula, si fanno campagne elettorali sulla pelle di queste persone e si
preferisce guardare agli interessi particolari dei partiti senza tener conto che stiamo
parlando di vite umane.
D. – Cosa può fare dunque la comunità internazionale
per rispondere a questo problema?
R. – Iniziare intanto a risolvere i conflitti
ed i problemi che li spingono a lasciare il proprio Paese: questa sarebbe la miglior
soluzione da proporre a queste persone. Creare la possibilità che possano vivere liberamente,
in modo dignitoso nel proprio Paese. Nel frattempo, però, una soluzione provvisoria
è anche quella di garantire un accesso legale, protetto, verso un Paese dove possano
trovare asilo e la protezione internazionale. Un programma di accoglienza, di reinsediamento
anche di un corridoio umanitario che permetta a queste persone di arrivare legalmente
nel Paese di destinazione, senza doversi affidare ai trafficanti mettendo in pericolo
la loro vita.
Il giorno dopo l’orrore per l’ennesima tragedia di migranti,
la comunità di Lampedusa vive oggi una giornata di sconforto ma anche di speranza,
come ha affermato il parroco dell’isola, donStefano Nastasi, intervistato
da Elvira Ragosta:
R. – C’è tanta
rabbia, tanto sconforto, anche perché la comunità ha pensato fin dal primo momento
che era qualcosa che si doveva e si poteva probabilmente evitare.
D. – I lampedusani
continuano la staffetta di solidarietà, nonostante le scene terribili di ieri, ma
cosa resterà alla popolazione di questa esperienza?
R. – Non possono nascondere
uno scoraggiamento, che quindi non è solo mio, ma anche della comunità. Questo è un
dramma troppo grande per noi, che incide nella carne di una comunità, perché se da
un lato c’è la perdita di questi fratelli, il dolore atroce delle loro famiglie, dall’altro
lato c’è una sofferenza che s’iscrive nella storia di questa comunità e che entra
nelle nostre carni.
D. - Lei si è unito all’appello del sindaco Giusi Nicolini
e alle istituzioni italiane ed europee. Quale potrebbe essere, secondo lei, la soluzione
più efficace per evitare l’ennesima tragedia di migranti?
R. – Penso che la
risposta sia di realizzare un corridoio umanitario, in modo tale da poter dare la
possibilità a chi riceve lo status di rifugiato di poter essere custodito, senza essere
travolto dal mare.
D. – Di cosa maggiormente ha bisogno in questo momento la
comunità dei lampedusani?
R. – Non credo ci sia un bisogno di qualcosa di materiale.
Quello che serve per i giorni futuri è una solidarietà fattiva, attraverso la quale
Lampedusa si senta parte viva dell’Italia e non si senta ancora una volta un’appendice
dell’Italia o dell’Europa. Ci aiuta sicuramente riunirci in preghiera, ma anche il
sostegno che è venuto prima da Papa Francesco e poi anche da altri. Bisogna ripartire
da lì per alimentare di nuovo quella speranza di cui abbiamo bisogno, per ridare consolazione
a questa comunità come anche alle famiglie e ai migranti.