40 anni fa il golpe in Cile. L’impegno della Chiesa, nel ricordo di chi lo ha vissuto
Marce, commemorazioni, Messe, sit-in, ma anche indagini, processi, inchieste. Soprattutto
dolore. Il Cile non dimentica: sono passati 40 anni dal golpe del generale Augusto
Pinochet e dalla morte a Santiago del presidente Salvador Allende. Secondo dati ufficiali,
tra l’11 settembre 1973 e il 1990 vennero detenute illegalmente o torturate 38.254
persone, mentre 3.216 furono uccise o fatte sparire. Nelle ultime ore, mille persone
si sono stese per terra sull’avenida Alameda, non lontano dal palazzo presidenziale
della Moneda, che il giorno del golpe venne bombardato dagli aerei della "fuerza aerea"
di Santiago: tutte hanno commemorato i 1.200 "desaparecidos" degli anni del regime
Pinochet. A oggi, almeno 262 persone sono state giudicate per violazioni dei diritti
umani nel Paese, mentre sono in corso oltre mille procedimenti giudiziari. Quarant’anni
dopo, dunque, il Cile come ricorda il golpe? Ascoltiamo il collega cileno Luis
Badilla Morales, intervistato da Giada Aquilino:
R. - Innanzitutto,
con molto dolore. Ci sono ancora tante persone in vita, nonostante siano passati 40
anni. Queste persone hanno sofferto molto, hanno perso figli, marito, moglie. Ci sono
famiglie distrutte per colpa dell’esilio e ci sono coloro che poi successivamente
sono emigrati per ragioni economiche. Quindi, c’è un profondo dolore, quasi una certa
sofferenza intima, che si legge sulla stampa locale e che si vede nei programmi televisivi.
Ho l’impressione che in queste settimane - nonostante ci siano state molte polemiche,
molte letture critiche, storiche, politiche degli eventi di 40 anni fa - il Paese
sostanzialmente abbia una reazione abbastanza comune: quella di guardare verso il
futuro, in avanti.
D. - Le cifre ufficiali delle Commissioni governative riguardo
alla repressione scatenata dai militari cileni agli ordini di Pinochet parlano di
oltre tremila morti, più di mille scomparsi nel nulla. Poi ci furono arresti, detenzioni
illegali, torture… Ma dietro le cifre rimangono le persone, i parenti delle vittime
che ancora chiedono verità e giustizia. A che punto è la ricostruzione dei fatti?
R.
- Credo che in questo senso si sia andati parecchio avanti, perché tutte le ricerche
storiche fatte dai governi democratici successivi alla dittatura militare di Pinochet
- insieme con le autorità politiche, civili e con quelle della Chiesa cattolica e
di altre Chiese cristiane che si sono impegnate nella difesa dei diritti umani - più
o meno hanno ricostruito il panorama statistico. Ma questo serve a poco, perché lì
c’è tutto il dolore. La cosa fondamentale sono le persone, quello che Papa Francesco
chiamerebbe “la carne di Cristo”, cioè quelli che noi possiamo toccare. E questo è
il dolore che rimane. Questo dolore, come hanno detto in 40 anni i vescovi, può essere
mitigato solamente con la verità, anche se dolorosa, con la giustizia e infine con
la riconciliazione.
D. - Le organizzazioni di difesa dei diritti umani chiedono
l’abolizione del decreto legge sull’amnistia, che esclude dalla responsabilità penale
tutte quelle persone che commisero le violazioni tra il ’73 e il ’78. Come si muove
la giustizia oggi?
R. - Questo è un tema molto delicato che caratterizza un
po’ tutti i Paesi dell’America Latina che sono passati dalla dittatura alla democrazia.
In Cile, si è andati molto avanti in questo senso. Non si è raggiunto quello che giustamente
vorrebbero tutti, però questo fa parte della riconciliazione: cioè aspettare la maturazione
dei tempi per tornare alla pienezza democratica.
D. - Oggi, com’è impegnata
la Chiesa in tal senso?
R. - In questo senso, la Chiesa cattolica ma anche
le altre Chiese cristiane a distanza di 40 anni mantengono lo stesso atteggiamento.
Sono state le chiese - in particolare quella cattolica - gli unici rifugi esistenti
per moltissimi anni, decenni, a protezione della dignità e della persona umana, dei
diritti dei più deboli.
D. - Quali figure della Chiesa rimangono oggi per il
loro impegno di allora?
R. - Vorrei ricordarne tante, ma prenderò solo una
come simbolo di questi tanti, tra l’altro anonimi, vescovi, sacerdoti, religiosi,
laici, catechisti, missionari, cileni e non. Prendo chi era al momento del golpe l’arcivescovo
di Santiago, il cardinal Raul Silva Henriquez.
Sull’impegno della Chiesa cilena
all’epoca del golpe, Elvira Ragosta ha intervistato Patricia Mayorga,
giornalista e scrittrice cilena che vive in Italia e che in prima persona ha vissuto
i bombardamenti dell’11 settembre 1973 a Santiago:
"A proposito
delle organizzazioni umanitarie, devo dire che la Chiesa cattolica cilena, subito,
all’indomani del golpe, con l’allora arcivescovo di Santiago, il cardinale salesiano
Raul Silva Henriquez, fece un comitato al quale aderirono le Chiese cristiane e -
ricordo - gli ebrei per cercare di aiutare i perseguitati. Poi, nell’ottobre del 1973,
è stato creato il Vicariato della Solidarietà: all’inizio veniva dato un aiuto materiale
alle famiglie che erano rimaste senza lavoro e che quindi avevano problemi economici.
In seguito, questo aiuto umanitario è diventato anche un aiuto di tipo giuridico,
soprattutto quando si è cominciato a sapere che c’erano delle persone arrestate, delle
quali non si avevano più notizie. Alcuni non si sono mai più incontrati".
Le
atrocità di una dittatura durata 17 anni oggi sono state ricordate anche alla Casa
della memoria di Roma. Servizio di Elvira Ragosta:
Sono passati
40 anni dal colpo di stato del generale Pinochet e in Cile mancano all’appello ancora
migliaia di persone. Sono i desaparecidos di una dittatura militare durata 17 anni,
nel corso dei quali Amnesty International ha contato anche 40mila vittime di violazioni
dei diritti umani. L’Italia dopo il golpe accolse gli esuli oppositori al regime di
Pinochet e dopo il ritorno della democrazia in Cile, anche i magistrati italiani hanno
aperto delle inchieste sui casi delle persone scomparse. Alla Casa della Memoria di
Roma si sono incontrati oggi studiosi italiani e cileni per ricordare l’11 settembre
del 1973 e riflettere insieme su come vive il Cile i 40 anni che lo separano da quell’esperienza.
Carlo Felice Casùla, ordinario di Storia Contemporanea all’Università Roma 3:
"La
memoria non riguarda solo le vittime, ancor meno i carnefici, ma riguarda il Paese
nella sua interezza, comprese le istituzioni."
Quella mattina dell’11
settembre Alberto Cuevas, come molti cileni, si trovava in Italia con una borsa di
studio universitaria e per molti anni non è riuscito a ritornare nel suo Paese:
"Noi
cileni un po’ ce lo aspettavamo, perché il colpo di Stato era già nell’aria. Però,
ovviamente fu una notizia che ci sconvolse. Poi man mano trovammo i meccanismi per
comunicare con l’interno. All’estero, invece, cominciammo ad organizzarci immediatamente
per dare una risposta democratica ad una dittatura che, fin dall’inizio, si dimostrò
di grandissima ferocia".