Il Papa al Centro Astalli: i conventi vuoti non si trasformino in alberghi, sono per
la carne di Cristo, i rifugiati
“Non dobbiamo avere paura delle differenze! La fraternità ci fa scoprire che sono
una ricchezza, un dono per tutti!”. Così il Papa ai rifugiati del Centro Astalli,
il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia, visitato martedì scorso in forma
privata. Al termine della visita alla mensa del Centro Astalli, il Santo Padre si
è recato nella Chiesa del Gesù, luogo fortemente simbolico e significativo per il
Centro, perché lì si trova la tomba di Padre Pedro Arrupe, fondatore dello stesso
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. Il servizio di Debora Donnini:
Roma, dopo
Lampedusa e altri luoghi di arrivo, è la seconda tappa dove i rifugiati giungono dopo
un viaggio difficile, lungo, estenuante anche violento. Lo ricorda il Papa che pensa
soprattutto alle donne, alle mamme che sopportano questo pur di assicurare un futuro
ai loro figli e una speranza di vita diversa. Quante volte qui come in altre parti
del mondo, nota il Papa, persone che portano scritto sul permesso di soggiorno “protezione
internazionale” sono costrette a vivere situazioni disagiate e “senza la possibilità
di iniziare una vita dignitosa”. Quindi il Papa ringrazia questo Centro e altri servizi
ecclesiali, pubblici e privati, che si danno da fare per queste persone. L’invito,
dunque, è a tenere sempre viva la speranza:
“Aiutare a recuperare la fiducia!
Mostrare che con l’accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro,
più che una finestra, una porta, e più si può avere ancora un futuro! Ed è bello che
a lavorare per i rifugiati, insieme con i gesuiti, siano uomini e donne cristiani
e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del bene comune, che per
noi cristiani è specialmente l’amore del Padre in Cristo Gesù”.
Il Papa
ricorda che fu Sant’Ignazio di Loyola a volere che ci fosse uno spazio per accogliere
i più poveri nei locali dove aveva la sua residenza a Roma e il padre Arrupe nel 1981
fondò il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati e volle che la sua sede romana fosse
in questi locali. Tre le parole che racchiudono il programma di lavoro per i gesuiti
e i loro collaboratori: servire, accompagnare e difendere. Servire “significa chinarsi
su chi ha bisogno e tendergli la mano” “come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli
Apostoli”. Servire significa stabilire con più bisognosi prima di tutto relazioni
umane, legami di solidarietà:
“Solidarietà, questa parola che fa paura
al mondo sviluppato. Cercano di non dirla. Solidarietà è quasi una parolaccia per
loro. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande
di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di
liberazione”.
Il Papa ricorda dunque che “i poveri sono anche maestri
privilegiati della nostra conoscenza di Dio”: la loro fragilità e semplicità smascherano
i nostri egoismi, le nostre false sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza
e ci guidano all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio, a ricevere nella
nostra vita il suo amore, la sua misericordia di Padre che, con discrezione e paziente
fiducia, si prende cura di noi, di tutti noi”.
Da questo luogo di accoglienza
il Papa desidera che tutti, “tutte le persone che abitano in questa diocesi di Roma”
si chiedano se vivono chiusi in se stessi o sanno servire gli altri come Cristo che
è venuto per servire fino a donare la sua vita. Il secondo aspetto è quello di “accompagnare”.
Il Papa ricorda il percorso compiuto negli anni dal centro Astalli: dalla prima accoglienza
si è passati ad accompagnare le persone alla ricerca di un lavoro e all’inserimento
sociale e a promuovere una cultura dell’incontro e della solidarietà. “La sola accoglienza
non basta”, ricorda il Papa. La misericordia vera, prosegue, chiede anche “a noi chiesa,
a noi città di Roma” che “nessuno debba più avere bisogno di una mensa, un alloggio
di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio
diritto a vivere e a lavorare e essere pienamente persona”.
Infine, Papa Francesco
ricorda che “difendere” è “mettersi dalla parte di chi è più debole”. “Quante volte
– afferma - non sappiamo o non vogliamo dare voce alla voce di chi – come voi – ha
sofferto e soffre, di chi ha visto calpestare i propri diritti, di chi ha vissuto
tanta violenza che ha soffocato anche il desiderio di avere giustizia!”. Il Papa sottolinea
dunque che “per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione
della giustizia non vengano affidate solo a degli ‘specialisti’, ma siano un’attenzione
di tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno
normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali”. In particolare
Papa Francesco ricorda che il Signore chiama a vivere con più coraggio l’accoglienza
nelle comunità:
“Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non
servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi
vuoti non sono vostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore
chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle
case, nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio,
responsabilità, ma ci vuole anche coraggio”.
L’invito è dunque quello di
“superare la tentazione della mondanità spirituale per essere vicini” “soprattutto
agli ultimi”. Abbiamo bisogno, dice, di comunità solidali che vivano l’amore in modo
concreto!”:
“Ogni giorno, qui e in altri centri, tante persone, in prevalenza
giovani, si mettono in fila per un pasto caldo. Queste persone ci ricordano sofferenze
e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche che fare qualcosa, adesso, tutti,
è possibile. Basta bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come posso dare
una mano?”.
“Grazie, dice infine, per difendere la vostra, la nostra
dignità umana”.