Congo: speranze flebili per i colloqui di pace. L'analista: tanti interessi in gioco
“In nome di Dio, lasciateci vivere!”: cosi alcuni giorni fa il vescovo di Goma, nella
Repubblica Democratica del Congo, si era rivolto ai responsabili e alle autorità perché
cessino le ostilità tra esercito e forze ribelli, nella tormentata regione del Kivu.
E, proprio ieri è scaduto il termine di tre giorni per riavviare colloqui di pace,
stabilito nel recente vertice di Kampala, in Uganda, dai leader dei cinque Paesi dei
grandi Laghi, chiamati a mediare tra governo di Kinshasa e i ribelli del movimento
M23. Roberta Gisotti ha intervistato Giusy Baioni, giornalista esperta
del Paese africano e membro dell’associazione Beati costruttori di pace:
D. - Che speranze
vi sono e che ruolo possono giocare i Paesi mediatori a Kampala. Non tutti sono al
di sopra delle parti…
R. – Esatto, è proprio questo il problema principale,
perché tra le persone sedute al tavolo ci sono quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
Ci sono rapporti Onu largamente documentati che attestano il coinvolgimento del governo
rwandese ed ugandese, con l’appoggio diretto ai ribelli dell’M23. Quindi, è difficile
capire come e quanto siano in grado di mediare. Di certo, c’è da sperare che questi
colloqui arrivino a qualche punto fermo perché in realtà erano già iniziati lo scorso
dicembre e sono stati sospesi a maggio. Ora, si cerca di farli riprendere - con un
ultimatum di 14 giorni di tempo - per riuscire ad arrivare ad un dato di fatto.
D.
– Da notizie di agenzia sappiamo che il Movimento 23 ha posto delle condizioni per
deporre le armi: ha chiesto che anche gli altri ribelli del Paese – di etnia hutu,
rispetto a loro che sono la minoranza tutsi – depongano le armi…
R. – Questa
è una condizione abbastanza difficile da rispettare. Il riferimento è a questo gruppo
che si chiama Fdlr (Democratic Forces for the Liberation of Rwanda) e che raggruppa
da ormai quasi un ventennio i combattenti hutu scappati dal genocidio. Sostanzialmente,
secondo il governo del Rwanda, sono i vecchi genocidari che si sono sottratti alla
giustizia e che sono rifugiati nella foresta del Congo. In realtà, sono passati 20
anni quindi la situazione è molto cambiata. All'interno di questi Fdlr ci sono sia
alcuni vecchi genocidari, ma anche forze nuove, forze diverse. La condizione posta
dall’M23 è proprio che venga finalmente e completamente disarmato questo gruppo.
D.
– Possiamo ricordare perché questo movimento – M23 – porta questo nome?
R.
– E’ nato facendo appello al 23 marzo del 2009, data degli ultimi accordi tra il governo
centrale di Kinshasa, capitale del Congo, con il gruppo di ribelli precedente, che
aveva un altro nome. Avevano stilato un accordo per far cessare l’ostilità e, secondo
gli attuali ribelli, questi accordi non sono stati rispettati dal governo centrale.
Quindi, hanno fatto sorgere una seconda ribellione con un altro nome, ovvero l’attuale
M23.
D. – Ci sono colpe di incompetenza nel risolvere questi conflitti con
i ribelli, da imputare al governo?
R. – Ci sono colpe sicuramente. Da una parte,
ci può essere incompetenza e dall’altra ci può essere – secondo molti, soprattutto
molti congolesi – una connivenza. Difficile districare anche qui la matassa. Nella
regione del Nord Kivu, non dimentichiamoci che c’è un sottosuolo ricchissimo che fa
gola a molti, al Rwanda principalmente, e di riflesso alle potenze occidentali e a
molte multinazionali. Secondo molti congolesi, poi, ci sarebbe una connivenza anche
di una parte del governo congolese, che ha interessi poco limpidi. Sono tanti i congolesi
dell’est che accusano il proprio presidente di essere connivente con il presidente
rwandese Kagame. È una situazione molto complessa, dove si fa fatica a vedere quali
siano i veri interessi in gioco e quale sia la reale volontà di portare pace.