Armi: spesi 400 mld di dollari l'anno. Archivio Disarmo: guerra in Medio Oriente sarebbe
terribile
Secondo il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute,
il comparto industriale militare fa girare ogni anni circa 400 miliardi di dollari.
Le spese militari rappresentano circa il 2,5% del Prodotto interno lordo mondiale,
con un costo medio di 249 dollari procapite. Una leva economica importantissima, che
solleva dei dubbi sulle guerre, spesso utilizzate da alcuni Paesi per far cassa. Salvatore
Sabatino ha chiesto a Fabrizio Battistelli, presidente di Archivio Disarmo,
quali sono attualmente i Paesi che investono maggiormente in armamenti:
R. - Sono le
principali potenze del mondo e ovviamente, di gran lunga, al primo posto gli Stati
Uniti. Ci sono poi anche la Cina, la Russia e gli altri Paesi di nuova industrializzazione,
come l’India e il Brasile, che sono anche importanti produttori. E soprattutto, ci
sono poi i Paesi europei - Gran Bretagna, Francia e Italia - con diverse specializzazioni
nel mercato delle armi.
D. - Questo è ovviamente un fenomeno che riguarda non
solo le grandi potenze: fa impressione vedere Paesi africani che investono moltissimo
in armamenti, quando invece quei fondi potrebbero essere impiegati in politiche sociali,
che sono praticamente inesistenti…
R. - Certamente. In quel caso, il ruolo
del Paese che importa è quello non di produrre e vendere e eventualmente anche guadagnare
su queste transazioni, ma al contrario di pagare per esse, anche se spesso con forme
più o meno assistite di credito, perché i Paesi produttori pur di vendere fanno ogni
tipo di sconto. Comunque, sempre di un onere si tratta e si tratta di risorse che
vengono, per intero, spostate verso il settore bellico da quelli che invece potrebbero
essere dei compiti di natura sociale: quindi per combattere la fame, per promuovere
lo sviluppo in particolare agricolo e industriale, per la salute, per l’educazione…
D.
- Ci può fare un esempio concreto di uno di questi Paesi?
R. - La Sierra Leone:
un piccolo Paese dell’Africa occidentale che è stato un acquirente di armi, per esempio
di armi leggere anche da parte dell’Italia. Sono casi - questo come altri - che dimostrano
che di fronte poi all’uso della forza come strumento politico non si bada a spese.
D. - Ci sono alcuni economisti che, cinicamente e ovviamente con vedute molto
particolari, dicono che solo una guerra mondiale potrebbe azzerare la crisi economica
e risollevare il mondo. E’ davvero così?
R. - Guardi, non si tratta soltanto
di economisti cinici che potrebbero anche auspicare una cosa del genere, sebbene mi
sembra abbastanza strano che lo facciano. Diciamo che più che altro è una posizione
realistica questa, più che cinica: nel senso cioè che è un dato storico che gravi
momenti di recessione o addirittura di crisi strutturale, come quella finanziaria
del ’29, hanno trovato nella guerra - in quel caso nella II Guerra Mondiale - un elemento
anticongiunturale che ha rimesso in moto il processo di accumulazione di sviluppo.
Naturalmente, questo non è un percorso obbligato, è evidente. Diciamo che la produzione
di armi e la relativa spesa militare rappresentano, per così dire, il luogo di minor
resistenza nel quale ci può essere la tentazione di canalizzare le risorse: può essere
più facile fare una guerra. Il punto è che oggi diventa più difficile fare una guerra.
Oggi, in un mondo multicentrico, è estremamente pericoloso innescare qualunque azione
di forza che, anche intenzionalmente e quindi senza volerlo, può poi dare vita a un
conflitto che, in questo caso, sarebbe veramente e definitivamente distruttivo. Pensiamo
in questo caso a cosa potrebbe accadere in Medio Oriente...