Al G20 posizioni distanti sull'intervento armato in Siria. Sul terreno ancora scontri
a San Pietroburgo dove i lavori del G20, ufficialmente sull’economia mondiale, sono
centrati comunque sulla crisi siriana. Ieri la cena di lavoro. Il premier italiano
Letta in un Tweet ha confermato le divisioni sull’intervento armato: gli Usa premono
per l’attacco, accettato da Mosca solo sotto egida Onu. Spaccature riportate anche
da fonti di stampa Russe. Da San Pietroburgo, Giuseppe D’amato:
La speranza
è che la notte abbia portato consiglio. I leader del G20 hanno parlato tra loro informalmente
sulla situazione siriana. Non si hanno per ora comunicati ufficiali. Il canale “Russia
24” vicino al Cremlino ha affermato che i leader si sono divisi in due fronti opposti,
ma non vi sarebbe una maggioranza né dall’una né dall’altra parte. Navi militari russe
sono entrate nel mar Mediterraneo provenienti dal mar Nero, mentre altre unità statunitensi
stanno affluendo davanti alle coste della Siria. Il segretario dell’Onu Ban Ki Moon
ha apprezzato la lettera di Papa Francesco al G20. Gesti come quelli del Pontefice
possono dare un contributo importante, ha detto un portavoce delle Nazioni Unite.
Il presidente russo Putin ha invece parlato a lungo nel cuore della notte con il premier
britannico Cameron in un incontro bilaterale organizzato all’ultimo momento.
In
Siria intanto continuano gli scontri tra oppositori del regime e militari, in allerta
tutti i Paesi confinati con Damasco. Mentre negli Stati Uniti, secondo fonti di stampa,
circola una nuova bozza di risoluzione che mira ad obbligare Damasco alla messa al
bando delle armi chimiche. Il servizio di Marina Calculli.
Mentre a San
Pietroburgo di aprivano le danze del G-20 a Damasco ieri un’autobomba è esplosa, uccidendo
quattro persone e ferendone altre sei. L’esplosione è avvenuta vicino a un centro
di ricerca del ministero dell'Industria. Intanto verso le coste siriane si stanno
dirigendo tre navi da guerra russe che hanno il Bosforo. Secondo Mosca l'invio delle
navi è mirata a garantire sicurezza ai cittadini russi, in vista di una possibile
evacuazione dei residenti in Siria. La tensione è altissima all’interno della regione
per gli eventuali contagi nei paesi confinanti con la Siria. Ieri, tra l’altro, il
Wall Strett Journal ha rivelato che i servizi segreti americani hanno intercettato
l'ordine di un funzionario iraniano ai militanti sciiti in Iraq di attaccare obiettivi
statunitensi a Baghdad nel caso di intervento militare in Siria. E dall’America stessa
emerge una nuova possibile soluzione politica: una nuova bozza preparata da due senatori
americani darebbe 45 giorni ad Asad per mettere al bando le armi chimiche e firmare
il protocollo internazionale che le vieta. Anche il Libano teme, mentre Hezbollah
ribadisce il suo fermo sostegno a Damasco. Il numero di rifugiati è ormai incontenibile
e l’ennesima notizia drammatica che giunge dall’alto commissariato ONU per i rifugiati
svela che più di un quarto di profughi siriani in Libano non riceverà più aiuti alimentari
dall’ONU a causa della mancanza di fondi.
Ma sui motivi che hanno portato
ad un’accelerazione dell’intervento internazionale, Marco Guerra ha sentito
Pietro Batacchi direttore della Rivista Italiana Difesa:
R. - Negli ultimi
mesi - a partire dal gennaio di quest’anno - il regime siriano si è rafforzato sul
terreno. Grazie all’intervento dei guerriglieri libanesi di Hezbollah e l’assistenza
ricevuta dall’Iran, i ribelli hanno iniziato a perdere le posizioni che avevano guadagno
e il cosiddetto equilibrio di potere sul terreno è mutato a vantaggio del regime siriano.
Questo ha innescato una serie di processi: a cominciare dal fatto che gli israeliani
non potevano più tollerare che Hezbollah fosse così pesantemente intervenuta in Siria
e che comunque potesse essere in grado eventualmente di poter accendere un secondo
fronte contro Israele - oltre a quello libanese - anche in Siria; e dall’altra parte
le monarchie arabe del Golfo, cominciando dall’Arabia Saudita e dal Qatar, si sono
rese conto che il regime di Assad doveva essere, in qualche misura, riportato entro
certi confini. Questa serie di processi ha innescato, a prescindere dall’impiego di
armi chimiche, la reazione da parte degli Stati Uniti, della Francia e della coalizione
dei volonterosi che si va costituendo, ma dietro la quale ci sono le monarchie arabe
e Israele.
D. - Alcuni analisti sostengono che in realtà gli Usa non intendono
far cadere Assad, ma indebolire l’asse tra il regime di Damasco, Hezbollah e Iran…
R.
- La risoluzione approvata dalla Commissione Esteri del Senato americano non a caso
parla di “significativi cambiamenti all’equilibrio militare in Siria”. Per cui l’indebolimento
dell’asse tra Iran, Siria ed Hezbollah è uno degli obiettivi dell’intervento americano.
Questo non significa che debba portare alla caduta del regime siriano: significa soltanto
che un certo stato di cose che si è andato consolidando sul terreno negli ultimi mesi,
deve essere cambiato a beneficio di una serie di interessi, che sono essenzialmente
quelli delle monarchie del Golfo e di Israele. Non dimentichiamo il ruolo che le monarchie
del Golfo hanno sempre avuto nel finanziamento e nel supporto del fronte ribelle,
che non ha nulla a che fare con la democraticità e che un domani potremmo trovarci
a dover fronteggiare come esattamente sta succedendo adesso in Libia.
D. -
L’amministrazione americana ha valutato questi rischi?
R. - Credo che un’eventuale
caduta di Assad possa provocare una ripetizione dello scenario libico, ma su scala
ben maggiore e ben peggiore, perché la Siria - per la sua importanza geopolitica come
cerniera del sistema mediorientale - è ben più importante della Libia. Un’eventuale
caduta di Assad, che è sempre stato una sorta di fattore di certezza e di prevedibilità,
sarebbe una sorta di bomba nucleare lanciata sul Medio Oriente.