2013-09-04 14:40:31

A Venezia "L'intrepido" di Amelio, storia di un uomo più forte della sua precarietà


In concorso, a Venezia il secondo dei film italiani, “L’intrepido”, del regista Gianni Amelio: una storia di bontà, nella quale un padre dal lavoro sempre precario affronta la vita, i rapporti e il futuro con un semplice ottimismo, un’inesausta capacità di amare il prossimo e di essergli vicino, pronto al sorriso e a tanti piccoli gesti quotidiani di carità. Il servizio di Luca Pellegrini:RealAudioMP3

Antonio Pane sbarca il lunario sostituendo chi lavorare non può, nella livida Milano delle albe e in quella chiassosa delle notti. E’ un uomo dal cuore puro, per questo spiazzato e spiazzante nella società cinica, sporca, sorda e disonesta che lo circonda. Operaio che arriva sempre per ultimo alla vigna e che aspetta la sua mercede non certo dagli uomini, che sono tutti assai poco propensi all’onestà. Incontra anche qualche anima inquieta, che fa parte della classe dei perdenti come lui. Ma a differenza di lui non ha felicità negli occhi, non ha la semplicità dei virtuosi e degli ottimisti. Una ragazza della borghesia di cui non sappiamo i problemi compie un gesto estremo, ma le lavoratrici di un laboratorio di cucito gli si fanno intorno; gli immigrati non capiscono le sue origini, ma lo confortano e forse per questo deciderà alla fine di migrare in Albania. Antonio Albanese dà splendidamente vita a questo protagonista. Abbiamo chiesto a Gianni Amelio se la sua bontà naïve è una difesa o un’incapacità di prendere coscienza della realtà:

R. – Mi sembra la prima che ha detto, vale a dire una persona che non è candida perché è nata così, perché è il suo carattere. E’ una persona che attraversa il mondo con la volontà di cambiarlo, ma con i mezzi suoi: vale a dire senza usare i cazzotti, senza usare i pugni, ma usando una specie di arrendevolezza che in realtà è la sua forza, la forza delle persone buone, la forza delle persone oneste, la forza delle persone che hanno dignità e volontà di essere persone.

D. - Anche la questione del lavoro è al centro del suo film: precario, sottopagato, pericoloso…

R. – Il centro di questo film non è solo il lavoro o la mancanza di lavoro, perché altrimenti avrei fatto un film – diciamo – di denuncia sociale, come si usava una volta. Invece, è un film che ha molte facce e forse la faccia più importante è quella intima, privata, perché – per usare un’antica frase – il privato è pubblico e quindi se tu all’interno della società hai un ruolo di precario, probabilmente anche a casa tua sei precario nei rapporti con tuo figlio, con tua moglie, con una ragazza che incontri… Questa è forse la cosa che a me stava più a cuore nel racconto. Un uomo di 50 anni ha una devastazione quando perde il lavoro, ma anche chi ancora non lo ha avuto pensa di non poterlo avere mai e quindi a 20 anni è forse altrettanto drammatico il problema. Penso sia un film da scoprire e forse un aggettivo solo non basta: non si può dire è una commedia, è un dramma… Forse ha ragione il produttore, che sostiene assomigli a una nuvola perché dice: tu stai guardando una nuvola e mentre la guardi la nuvola cambia aspetto, cambia forma.







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