A Venezia "L'intrepido" di Amelio, storia di un uomo più forte della sua precarietà
In concorso, a Venezia il secondo dei film italiani, “L’intrepido”, del regista Gianni
Amelio: una storia di bontà, nella quale un padre dal lavoro sempre precario affronta
la vita, i rapporti e il futuro con un semplice ottimismo, un’inesausta capacità di
amare il prossimo e di essergli vicino, pronto al sorriso e a tanti piccoli gesti
quotidiani di carità. Il servizio di Luca Pellegrini:
Antonio Pane
sbarca il lunario sostituendo chi lavorare non può, nella livida Milano delle albe
e in quella chiassosa delle notti. E’ un uomo dal cuore puro, per questo spiazzato
e spiazzante nella società cinica, sporca, sorda e disonesta che lo circonda. Operaio
che arriva sempre per ultimo alla vigna e che aspetta la sua mercede non certo dagli
uomini, che sono tutti assai poco propensi all’onestà. Incontra anche qualche anima
inquieta, che fa parte della classe dei perdenti come lui. Ma a differenza di lui
non ha felicità negli occhi, non ha la semplicità dei virtuosi e degli ottimisti.
Una ragazza della borghesia di cui non sappiamo i problemi compie un gesto estremo,
ma le lavoratrici di un laboratorio di cucito gli si fanno intorno; gli immigrati
non capiscono le sue origini, ma lo confortano e forse per questo deciderà alla fine
di migrare in Albania. Antonio Albanese dà splendidamente vita a questo protagonista.
Abbiamo chiesto a Gianni Amelio se la sua bontà naïve è una difesa o
un’incapacità di prendere coscienza della realtà:
R. – Mi sembra la prima che
ha detto, vale a dire una persona che non è candida perché è nata così, perché è il
suo carattere. E’ una persona che attraversa il mondo con la volontà di cambiarlo,
ma con i mezzi suoi: vale a dire senza usare i cazzotti, senza usare i pugni, ma usando
una specie di arrendevolezza che in realtà è la sua forza, la forza delle persone
buone, la forza delle persone oneste, la forza delle persone che hanno dignità e volontà
di essere persone.
D. - Anche la questione del lavoro è al centro del suo film:
precario, sottopagato, pericoloso…
R. – Il centro di questo film non è solo
il lavoro o la mancanza di lavoro, perché altrimenti avrei fatto un film – diciamo
– di denuncia sociale, come si usava una volta. Invece, è un film che ha molte facce
e forse la faccia più importante è quella intima, privata, perché – per usare un’antica
frase – il privato è pubblico e quindi se tu all’interno della società hai un ruolo
di precario, probabilmente anche a casa tua sei precario nei rapporti con tuo figlio,
con tua moglie, con una ragazza che incontri… Questa è forse la cosa che a me stava
più a cuore nel racconto. Un uomo di 50 anni ha una devastazione quando perde il lavoro,
ma anche chi ancora non lo ha avuto pensa di non poterlo avere mai e quindi a 20 anni
è forse altrettanto drammatico il problema. Penso sia un film da scoprire e forse
un aggettivo solo non basta: non si può dire è una commedia, è un dramma… Forse ha
ragione il produttore, che sostiene assomigli a una nuvola perché dice: tu stai guardando
una nuvola e mentre la guardi la nuvola cambia aspetto, cambia forma.