Obama: deciso l'attacco sulla Siria. L'esperto: l'Europa non in grado di sostenere
i costi di una guerra
Gli Stati Uniti hanno deciso l’attacco militare alla Siria. Lo ha detto il presidente
Obama, precisando che comunque chiederà un voto del Parlamento. Dure le reazioni di
Russia e Iran in sostegno del governo siriano. Il servizio di Marina Calculli:
Il presidente
degli Stati Uniti Barak Obama è pronto a dare l’ordine di attaccare la Siria perché
il bombardamento con il gas nervino è stata la più grave violazione dei diritti umani
del XXI secolo. Un’azione di cui l’America è certa che il responsabile sia il regime
di Asad. Ma il capo della Casa Bianca non lo farà se il Congresso non gli darà l’approvazione.
“Non posso dimenticare della nostra storica democrazia” – ha detto Obama, che si è
poi augurato che gli eletti lo sostengano in nome della sicurezza nazionale. Un misto
di fermezza e pacatezza, dunque, che per un momento soltanto fa tirare il fiato ad
un Medio Oriente che si aspettava un attacco immediato. Obama ha comunque ribadito
che l’azione potrebbe avvenire in qualsiasi momento, quando gli Stati Uniti lo decideranno
pur rimarcando, come aveva già fatto in precedenza, che si tratterà di un attacco
limitato nella portata e nel tempo. E’ questo che d’altronde a Damasco si aspetta:
oggi il premier siriano al-Halqi ha detto che l’esercito ha “il dito sul grilletto,
pronto a qualsiasi scenario”. Ferma resta la critica di Mosca: le accuse al regime
sono infondate e insensate, di fronte ad un’America che di fatto ha scelto di non
aspettare le evidenze degli ispettori dell’ONU e che è sicura che il responsabile
dell’uso del gas nervino sia Asad. E l’Iran, principale alleato di Damasco nella regione,
mette in guardia il nemico storico: l’entità sionista e l’Occidente pagheranno un
prezzo altissimo.
Ma sui costi di una guerra Salvatore Sabatino ne
ha parlato con Carlo Altomonte, docente di Economia Politica presso l’Università
Bocconi di Milano:
R. – Bisogna
distinguere tra Stati Uniti ed Europa. Secondo me, gli Stati Uniti possono sostenere
una guerra, perché la situazione americana è migliore, soprattutto perché in questo
momento hanno riserve petrolifere tali da garantire una certa autonomia in futuro.
Quindi, risentirebbero meno di aumenti del costo del petrolio. L’Europa, secondo me,
non è invece in condizione di dichiarare guerra a nessuno.
D. – Forse, anche
per questo c’è stato questo passo indietro di Londra e questa posizione altalenante
di Parigi…
R. – Sì. In effetti il fronte europeo, come sempre, non è unito,
ma in particolare in questo momento Germania e Italia sono sicuramente sulla difensiva,
anche perché vedono oggettivamente il costo economico di un intervento che al momento
non ha un orizzonte chiaro, né temporale, né soprattutto politico.
D. – Se
gli Stati uniti ce la fanno a sostenere un conflitto, perché aleggia su Washington
lo spettro dell’Iraq? Ricordiamo che è stato uno dei motivi scatenanti della crisi
economica…
R. – Il punto, secondo me, è esclusivamente politico, nel senso
che da un punto di vista economico quello che dovrebbe essere un intervento in questo
momento – come sempre limitato, pensiamo al caso Libia – è sostenibile. Il punto è
politico: abbatti un regime per favorire l’opposizione. In questo momento, la forza
di opposizione più forte in Siria, secondo molti analisti, è una fazione riconducibile
ad Al Qaeda. Quindi, da un punto di vista politico non è chiaro il do ut des americano.
Per cui, secondo me, il tema americano è solo politico non economico in questo momento.
D.
– Di fronte a un disimpegno americano a lungo termine in Medio Oriente, l’Europa,
in particolare la Francia, sta giocando invece la carta dell’interventismo. Cosa ne
verrebbe a guadagnare in termini economici?
R. – Questo, secondo me, è un punto
centrale, nel senso che – come dicevo – gli Stati Uniti oggi hanno quantità di riserve
di petrolio e gas forse solo secondi all’Arabia Saudita nel mondo. Quindi, di fatto,
noi dobbiamo iniziare a entrare nell’ottica di Stati Uniti autonomi sotto il punto
di vista della politica energetica e quindi con un graduale disimpegno possibile dal
Medio Oriente. Questo lascia evidentemente esposta l’Europa, obbligandola a un ruolo
da protagonista nel Mediterraneo. Non sono sicuro che la strada francese – se vogliamo
isolata e in qualche modo interventista – sia quella migliore. Auspicherei che, come
per le questioni economiche, si inizi ad avere un consenso politico europeo forte
e una strategia comune sulla strada della politica estera.
D. – La destabilizzazione
dello scacchiere mediorientale ha immediate ripercussioni anche sulle quotazioni del
petrolio che, in queste settimane, hanno subito enormi aumenti. Secondo lei, è una
conseguenza inevitabile o è pura e mera speculazione da parte dei Paesi produttori?
R.
– No, temo che la conseguenza sia abbastanza inevitabile, perché le condizioni dell’offerta
petrolifera in questo momento sono abbastanza strette, nel senso che non c’è capacità
in eccesso molto ampia. A fronte di una crescita economica sicuramente meno forte
che in passato dei Paesi emergenti – ma comunque ancora sostenuta e quindi di domanda
dei prodotti petroliferi ancora in crescita – ogni destabilizzazione dello scacchiere
mediorientale porta gioco forza a un aumento delle quotazioni ben al di là dei cento
dollari al barile. Questa è una cattiva notizia per l’economia mondiale, ripeto, in
particolare secondo me per quella europea.