Il priore di Bose: le parrocchie siano più comunità e non spazi di "consumo liturgico"
La liturgia alla luce del Concilio Vaticano II è stata al centro della Settimana liturgica
nazionale, che si è conclusa a Bergamo. “Cose nuove e cose antiche. La liturgia a
50 anni dal Concilio” il titolo dell’incontro. E' intervenuto all'appuntamento anche
il priore di Bose Enzo Bianchi. Debora Donnini gli ha chiesto quali
le conclusioni a cui si è giunti:
R. – Innanzitutto,
il rapporto tra liturgia e Parola di Dio. Si è insistito molto sul fatto che ci deve
essere una rivalutazione di quella che è la “Liturgia della Parola”, con l’omelia
e con la proclamazione delle letture e che questo è molto importante per un rinnovamento
della Parola di Dio al cuore della Chiesa, come aveva chiesto soprattutto Papa Benedetto
XVI nella Verbum Domini. L’altro rapporto su cui si è indagato è quello tra
liturgia ed appartenenza alla Chiesa, reagendo di fronte alla dominante individualistica
di oggi, che sovente vede anche dei cristiani maturi che sono lontani dalla liturgia
pur avendo un impegno nel mondo. Ma questo significa svuotare prima o poi di contenuti
anche l’appartenenza alla Chiesa. Infine, si è parlato dell’altro rapporto molto importante,
quello tra la liturgia e l’evangelizzazione: la possibilità che la liturgia evangelizzi,
sia una trasmissione della fede di generazione in generazione.
D. – A 50 anni
dal Concilio Vaticano II, voi avete sottolineato che è importante rafforzare il “noi
ecclesiale”. Quindi ad esempio è importante che le persone che vanno a Messa, siano
aiutate a partecipare ed in un certo senso si conoscano anche tra di loro?
R.
– Sì, che ci sia maggior comunità, che il “noi” della Chiesa sia davvero riletto e
rivissuto profondamente, perché l’Eucarestia ha come scopo innanzitutto quello di
far sì che il cristiano diventi corpo di Cristo nell’Eucaristia. Questo è il fine
dell’Eucaristia secondo tutta la tradizione della Chiesa cattolica. Occorre davvero
che questo “noi”, questo “essere corpo” sia più consapevole nella Chiesa e la liturgia
deve essere assolutamente capace di far crescere questa consapevolezza, questa maturità
cristiana.
D. – Prima del Concilio Vaticano II, la Messa era in latino, poi
sono state introdotte le lingue nazionali. Anche questo è un aspetto che può aiutare,
come avete detto, a creare questo “noi ecclesiale” e i fedeli ad accostarsi di più
alla parola di Dio, cioè a sentire che la Parola di Dio parla alla loro vita…
R.
– Assolutamente. D'altronde tutta la tradizione della Chiesa lo mostra: la liturgia
è stata sempre tradotta nelle differenti lingue dell’Oriente già fin dall’antichità.
Anche a Roma la liturgia è stata tradotta in latino mentre all’inizio veniva invece
celebrata in greco. Come nell’Antico Testamento, la Bibbia veniva tradotta in aramaico
quando non si comprendeva più l’ebraico. Dunque, questo è coerente con tutta la grande
tradizione sia ebraica, sia cristiana.
D. – Per poter vivere questo “noi ecclesiale”
come si possono aiutare oggi le parrocchie e le diocesi?
R. – Bisogna che le
parrocchie diventino maggiormente comunità. Bisogna che ci siano spazi non solo di
un “consumo liturgico”, ma che la comunità abbia la possibilità – prima dell’Eucarestia
o subito dopo – di un momento di scambio, di riconoscimento almeno gli uni degli altri
e che ci sia una viva partecipazione alla vita parrocchiale, altrimenti c’è solo un
consumo di religioso.