Crisi in Centrafrica. La testimonianza di una suora comboniana: la gente in preda
al terrore
Nella Repubblica Centrafricana resta sempre alto il livello di tensione. E' di almeno
11 morti e circa 30 feriti il bilancio delle vittime di un’operazione militare delle
forze del nuovo governo che mirava al disarmo dei partigiani del deposto presidente,
François Bozizé. Intanto, stenta a partire il processo di stabilizzazione che dovrebbe
culminare in elezioni democratiche, secondo quanto detto dal neo-presidente Djotodia,
capo del movimento ribelle Seleka, autore del golpe di fine marzo; ma di fatto la
popolazione è oggetto di violenze e soprusi continui. Sulla situazione Giancarlo
La Vella ha raccolto la testimonianza della religiosa comboniana, suor Elianna,
da due anni missionaria a Bangui:
R. - Il Paese
è fondamentalmente bloccato. Le persone vivono ancora costantemente nella precarietà
e nella paura, perché, nonostante sia iniziato il disarmo per opera del gruppo Seleka,
le persone continuano ad essere rapite, continuano i saccheggi, i furti, le violenze
e le ingiustizie verso la popolazione. Quindi il clima in cui purtroppo vive ancora
la maggior parte delle persone è, come dicevo, un clima di paura e di precarietà;
non si possono fare programmi a lungo termine, manca la libertà di espressione e anche
una vera liberà di movimento. Inoltre la situazione sociale è molto difficile. Il
momento in cui il Seleka ha invaso il Paese era quello della semina, della coltivazione
e della cura del raccolto. Queste cose non sono state fatte, quindi il denaro non
circola e le persone vivono già una grande crisi alimentare.
D. - Quindi, povertà
che si somma alla paura in un clima quasi ancora da “resa dei conti”?
R. -
Sì. E purtroppo questo stillicidio quotidiano per la popolazione sta generando anche
nuovi sentimenti di odio e di vendetta. C’è questo rischio concreto di una spaccatura
sociale tra cristiani e musulmani, anche se c’è uno sforzo continuo e costante da
parte della Chiesa, cattolica, protestante e dei leader musulmani di evitare questo.
Ci sono costantemente iniziative comuni di dialogo, di formazione, per invitare al
dialogo, al rispetto reciproco, ad un futuro insieme.
D. - Un processo di democratizzazione
- quello promesso dal neopresidente Djotodia - che quindi è ancora lontano?
R.
- Purtroppo c’è una grande divergenza tra quello che i responsabili dicono e quello
che la popolazione vive ogni giorno. Ciò che succede nei fatti è il terrore a cui
la popolazione è soggetta. Molte persone hanno ripreso a fuggire. Quindi direi che
quello che si sta vivendo in questo momento è purtroppo il contrario di quello che
si sta promettendo.
D. - Per uscire da questa situazione che cosa ci vorrebbe?
R.
- La situazione è molto complessa. Quello che i vescovi chiedono, quello che la società
civile chiede è, comunque, l’aiuto di una forza internazionale, per poter fare uscire
dal Paese tutte le milizie mercenarie per la maggior parte e creare le possibilità,
perché le forze armate centrafricane tornino a prendere il controllo della situazione.
D.
- Molti osservatori parlavano anche di un pericolo di islamizzazione …
R. -
Sì. Di questo si è parlato fin dall’inizio. Ma lo sforzo dei responsabili religiosi
è sempre stato quello di dire: “Non facciamo trasformare questa guerra, che è fondamentalmente
politica ed economica, in una guerra di religione”. Quello che possiamo dire è che
effettivamente la parte più colpita da questa ribellione è tutta la componente cristiano-cattolica
del Paese, ma - ripeto - lo sforzo di tutti i leader religiosi è quello di dire: “Non
mettiamo a questa guerra politico-economica altre etichette”.
D. - Voi missionari
come operate in Repubblica Centrafricana in questo difficile momento?
R. -
Posso dire che sono fiera della testimonianza che la Chiesa sta dando. La Chiesa è
stata la prima ed unica a muoversi, attraverso l’arcivescovo di Bangui, mons. Nzapalainga,
che è riuscito a catalizzare intorno a sé le forze vive della Chiesa e delle congregazioni.
Sicuramente, senza la presenza della Chiesa in questo momento, probabilmente la situazione
sarebbe stato molto più drammatica. Noi cerchiamo di riprendere le nostre attività,
di fare tutto quello che si può, per dare un segno di speranza e di volontà, per andare
avanti e ricostruire e per dare al Paese la possibilità di una vita e di un futuro.