Il “caso” Washington Post. Morcellini: sempre più forte l’integrazione dei media
Ha destato clamore, in questi giorni, la vendita del “Washington Post” al fondatore
del collosso digitale "Amazon", Jeffrey Bezos, per la cifra di 250 milioni di dollari.
La storica testata statunitense passa dunque dalla famiglia Graham ad uno degli uomini
di punta del mondo del web. Si tratta di un esempio di integrazione dei media, sempre
più forte. A sottolinearlo è il mass-mediologo Mario Morcellini, intervistato
da Alessandro Gisotti:
R. – Non è vero
che è la Rete a mangiarsi la carta stampata per una ragione che i numeri rendono assolutamente
inequivocabile: la piena integrazione tra informazione tradizionale e i linguaggi
della Rete è l’unica che dà risultati positivi. In passato i giornali cartacei hanno
pensato in qualche misura di salvarsi con una piccola “vetrinizzazione” di quello
che già facevano nel cartaceo. Quella si è rivelata un’esperienza fallimentare, non
meno di quella della politica italiana di esportare sulla Rete i vecchi linguaggi
e il vecchio tradizionalismo del mainstream. Ciò che è decisivo, invece, è
quella che ho chiamato “piena integrazione” e il cambio di linguaggio. L’informazione
si salva, infatti, se in qualche modo smaterializza il “difficilese”, il “politichese”
dei propri linguaggi e cambia cosmologia, cambia interessi culturali, propri e dei
lettori.
D. – Questo – pensiamo anche ai social network – ha qualcosa da dire
molto agli operatori dell’informazione...
R. – Ci vuole una vera e propria
rivoluzione culturale, bisogna dirlo. Il giornalismo è abituato a far riferimento
a pochi soggetti sociali, spesso alle élite e ai più forti e potenti. La Rete ha affermato
un tipo di antropologia diversa e, va detto, la Rete è lo strumento più democratico
che noi conosciamo: porta alla ribalta soggetti che a volte diventano anche giornalisti,
ma che comunque sono narratori e impongono un’agenda e una priorità di temi radicalmente
diversa dagli editorialisti e dai pastoni del vecchio quotidiano. E’ chiaro, quindi,
che l’elettroshock culturale è davvero un’operazione inevitabile. Bisogna che gli
operatori dei media sentano profondamente il cambiamento del mondo, perché se non
lo sentono, purtroppo, andranno alla deriva.
D. – Non è un caso ovviamente
che queste cose che vediamo vengano dagli Stati Uniti...
R. – Non è un caso
per due motivi: l’innovazione lì è più rapida e, secondo elemento, è un Paese intimamente
democratico, in cui l’elitismo che è caratteristico di tutte le società moderne è
corretto da una forte vena missionaria di ispirazione, comunque, cristiana, anche
se non necessariamente cattolica. E, dunque, è in quel Paese che la Rete viene più
presa sul serio che in altri Paesi del mondo. Non è un caso che da lì vengano lezioni
sia di democrazia sia di radicale innovazione comunicativa, persino in un mondo un
po’ snob come quello del giornalismo.