Il piano di Lonquich apre il Festival "Pietre che cantano" ispirato alla terra abruzzese
E' stato il pianista, Alexander Lonquich ad inaugurare la 14.ma edizione del Festival
Internazionale di musica “Pietre che cantano”. Lo scenario è il Monastero di Santo
Spirito a Ocre, una monumentale abbazia cistercense del XIII secolo che domina la
Valle dell’Aterno e l’Aquila. All’Abruzzo e alle sue ricche tradizioni dimenticate
è dedicata anche questa edizione del festival che ai concerti affianca percorsi letterari,
mostre e danza. Gabriella Ceraso ne ha parlato con la direttrice artistica
Luisa Prayer:
R. – E’ una
parte d’Italia che sta proprio nel cuore del nostro Paese, e che però rimane ancora
un luogo abbastanza segreto. Quindi, noi cerchiamo di valorizzare i nostri programmi
musicali attraverso la collocazione in questi scenari di pregio, dal punto di vista
paesaggistico e artistico, e viceversa cerchiamo di prendere spunto da questi per
i contenuti della nostra proposta musicale.
D. – Infatti, uno dei due cicli
di appuntamenti della vostra edizione – oltre, ovviamente, al ciclo “Verdi” per il
bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi – è proprio quello intitolato: “Abruzzo
primitivo, Abruzzo del mito”. Di che si tratta?
R. – Quest’anno avevamo diversi
spunti: uno era lo spunto anche dannunziano, perché siamo nei 150 anni della nascita
di D’Annunzio, e non possiamo dimenticare che a fine Ottocento D’Annunzio, dall’interno
del “Cenacolo Michettiano”, cioè di questo sodalizio di artisti, ha voluto riappropriarsi
di queste radici, di questo Abruzzo sconosciuto. E' un’esplorazione di colori, suoni,
tradizioni che emerge poi dalle opere che loro hanno restituito – sia nelle opere
letterarie di D’Annunzio sia nelle opere pittoriche di Michetti e anche di Tosti,
che era il musicista del gruppo, nelle sue raccolte di canti popolari abruzzesi, nell’individuare
il “quid” del melos popolare. L’altro “Abruzzo popolare, Abruzzo del mito” è quello
della civiltà contadina che però aveva una sua poesia interiore, rimasta documentata
nelle opere di alcuni scrittori come Massimo Levi o Bruno Sabatini, di cui pubblichiamo
un nostro primo e-book
D. – Quindi, dal Medioevo attraverso la civiltà contadina
fino al Novecento, un viaggio attraverso tradizioni, balli, canti di questa terra.
In particolare, di D’Annunzio quale aspetto mettete in luce?
R. – Il D’Annunzio
vero, che è quello delle radici, ma anche un D’Annunzio che parla con l’Europa: perché
è un D’Annunzio che legge Wagner, che è in contatto fitto con la cultura francese
di quel momento, una figura di dimensione europea.
D. – Questo coinvolgimento
musica-arte-territorio è un buon mix, è una cosa che attrae, è una cosa che lascia
una traccia maggiore rispetto ad un festival comune?
R. – Sì. Noi puntiamo
sull’emozione totale: dove mi trovo, cosa vedo, cosa sento, chi incontro? Perché i
nostri sono anche incontri, il pubblico è veramente a contatto con l’interprete. E
vediamo che il pubblico è rimasto entusiasta, si affeziona, gli sembra di conoscere
l’artista più da vicino. E’ il senso, un po’, della musica dal vivo: una specie di
rito collettivo basato proprio sulla vicinanza, sullo stare lì, tutti quanti insieme,
in quel momento.