Israeliani e palestinesi, prove di pace. L'analista: Usa e Ue più decisi rispetto
a prima
“Non ci sono alternative alla pace, la guerra non ha senso”. Questo il commento del
presidente israeliano Peres all’indomani del via libera dei negoziati israelo-palestinesi,
rimessi in piedi grazie alla mediazione degli Stati Uniti. Tra 9 mesi, ha detto il
segretario di stato americano Kerry, si arriverà ad un’intesa di pace e alla definizione
di due popoli in due Stati. Sostegno al dialogo dal capo della diplomazia Ue Ashton
secondo la quale la conclusione definitiva del conflitto è a portata di mano. Al microfono
di Michele Raviart, Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della
Sera:
R. – La vera
novità di questi incontri, cominciati negli Stati Uniti, è proprio nella determinazione.
Netanyahu comprende – forse per la prima volta – che dall’altra parte gli Stati Uniti
e l’Europa sono più determinati di prima: Obama perché ha già fatto capire a Netanyahu
qual è la sua voglia – mentre Kerry, il suo segretario di Stato, la sta esplicitando
in maniera molto evidente – l’Unione Europea perché ha mostrato i denti, forse per
la prima volta in Israele. quando ha detto: benissimo, se non si va avanti con il
processo di pace, si congelano immediatamente i prodotti che arrivano da parte dei
coloni. Comunque, le parti dovranno fare dei grossi sacrifici.
D. – La prima
fase di questi negoziati è la definizione dei confini e della sicurezza. Stiamo sempre
parlando della possibilità quindi di due Stati indipendenti?
R. – Sicuramente,
un’alternativa a questo non conviene a Israele, e Israele forse lo sta cominciando
a realizzare. Non c’è più un grande ritorno in Israele da parte di ebrei, mentre c’è
una crescita naturale da parte palestinese, che nell’arco di qualche decennio potrebbe
capovolgere quelli che sono gli equilibri di un unico Stato. Allora, i palestinesi
dicono: volete un unico Stato? Attenzione, perché tra un po’ diventeremo noi, la maggioranza...
Quindi, uno Stato ebraico a maggioranza araba sarebbe un nonsense. Ecco perché
la soluzione dei due Stati è la soluzione più logica e più razionale. Netanyahu sa
bene che nel suo Paese, negli ultimi anni, la maggioranza della popolazione israeliana
è favorevole ad un accordo di pace.
D. – Questo richiamo all’opinione pubblica,
poi, assume una rilevanza se un eventuale accordo di pace venga sottoposto a referendum
…
R. – Sì. È una prova. Forse, Netanyahu lo ha anche detto proprio per convincere
i suoi ministri più riottosi ad accettare il fatto di di compiere questi sacrifici
necessari, proprio perché il referendum potrebbe far certificare dalla gente quello
che la classe politica non vuole certificare.
D. – Da parte palestinese, invece,
qual è la situazione, considerando anche che c’è di fatto una doppia leadership, Al
Fatah in Cisgiordania e Hamas a Gaza?
R. – Questo è uno dei punti fragili del
mondo palestinese. Ora, pensare a un “Hamas – stan” come era stato detto, e all’Autorità
nazionale palestinese in Cisgiordania mi sembra una forzatura che indebolisce quella
che è la lotta palestinese. Ripeto: i sacrifici devono affrontarli tutti. Per i palestinesi,
uno dei sacrifici è la rinuncia ai confini del ’67. La rinuncia al pieno diritto al
ritorno per stabilirsi in Israele è però un punto irrinunciabile per i palestinesi,
ma credo che persino nella destra israeliana ci sia qualcuno che ci sta seriamente
ripensando, ed è proprio Gerusalemme. Il diritto dei palestinesi ad avere in qualche
modo una propria presenza nella Città santa sarebbe un obiettivo, credo, non difficilmente
raggiungibile.