Kenya, vite che rinascono in baraccopoli: l’esempio di
Kibiko
Riabilitare e reintegrare chi vive ai margini della società, in particolare nelle
bidonville. Con questo obiettivo a Kibìko, a pochi chilometri dalla capitale kenyana
Nairobi, religiosi e operatori sociali dedicano i loro sforzi a ragazzi e adulti che
arrivano dalla baraccopoli di Korogocho. Tra loro, particolare attenzione va a quanti
hanno problemi di dipendenze da alcol e droga, come spiega, a Davide Maggiore,il missionario comboniano padreStefano Giudici:
R. – E’ una
delle piaghe più grandi, sicuramente, nella baraccopoli di Korogocho. Addirittura,
c’è gente lì che viene a vivere per l’accesso facile all’alcool, essendo illegale.
Non dobbiamo pensare al nostro vino, alle nostre birre, ma a una porcheria che ha
degli effetti devastanti sull’organismo, soprattutto se preso in dosi massicce e continuate.
Stiamo cercando, quindi, di affrontare questo problema e diamo la possibilità a questa
gente di iniziare un cammino di riabilitazione, di recupero, che per noi significa
semplicemente ritornare a vivere.
D. – Qual è l’approccio che seguite?
R.
– E’ diviso sostanzialmente in tre fasi. Il primo è proprio il lavoro di strada, fatto
dai nostri operatori sociali – che sono tutti di Korogocho – con l’alcolizzato, che
viene invitato in un centro diurno. Normalmente, gli alcolisti hanno un incontro quotidiano
durante il pomeriggio per un cammino di riabilitazione. Quando la persona mostra segni
d’interesse, di cambiamento, allora si inizia un cammino più approfondito che può
portare alla permanenza nel centro residenziale, quello di Kibiko, che dura circa
tre-quattro mesi, dipende dai casi. Questa sarebbe la seconda fase. La terza fase
è l’aftercare, cioè si colloca dopo la riabilitazione. Noi, fin dall’inizio,
lavoriamo con le famiglie, cerchiamo di potenziare le famiglie e di formarle. In molti
casi, è proprio una riunificazione quindi cerchiamo anche di seguirli, una volta reinseriti
nelle famiglie, con piccolissime attività commerciali, in modo che possano avere qualcosa
da fare, e li invitiamo sempre ovviamente a continuare gli incontri degli alcolisti
anonimi.
D. – La filosofia del vostro progetto è ben riassunta da quello che
è il motto: “Vogliamo vivere”...
R. – Un esempio, secondo me bellissimo, che
riassume bene tutto, è quello di una delle nostre operatrici sociali che nel 2010
è passata lei stessa per il programma di riabilitazione e da lì ha iniziato un cammino
nuovo, tanto che è stata battezzata a Pasqua e poco tempo fa ha ricevuto la Cresima.
Adesso, vuole impegnarsi per tornare a scuola: è una vita che rifiorisce laddove sembrava
morta.
D. – Non si tratta, però, di un cammino solo individuale...
R.
– No, la nostra filosofia, il nostro obiettivo, il sogno in cui crediamo tantissimo,
è dare agli individui delle possibilità, degli stimoli, ma invitarli anche a reinvestire
quello che loro hanno ricevuto come individui nel cammino della comunità, in modo
che non sia soltanto uno che ce la fa, che esce e si salva, ma che davvero tutti insieme
si possa cambiare dall’interno questa realtà drammatica, che è la baraccopoli africana.
D.
– Come entra in questo processo il vostro impegno per l’evangelizzazione e cosa vuol
dire, più in generale, evangelizzare in un contesto come quello della baraccopoli?
R.
– Evangelizzare è portare la buona notizia di Gesù Cristo. E la buona notizia è quella
che siamo amati indipendentemente da quello che succede nella nostra vita, anzi i
più diseredati, i più sconfitti sono quelli amati – se si può usare questa parola
– ancora di più. Ed è quello che cerchiamo di fare: portare l’annuncio in modo integrale.
C’è, quindi, il Vangelo, c’è la Dottrina sociale della Chiesa, c’è ovviamente l’analisi
del contesto in cui siamo. Il cammino è quello di chi prende in mano la sua vita e
si prende cura anche della comunità e degli altri.