Il card. Turkson: business equo è possibile se basato sulla logica del dono
Chi l’ha detto che per fare del buon business – che porti cioè a solidi profitti
– bisogna seguire alla lettera le logiche di mercato, evitando cedimenti sul fronte
dell’etica? Da decenni, il magistero sociale della Chiesa sostiene l’esatto contrario,
mentre si moltiplicano le aziende che dimostrano come i due aspetti si possano felicemente
coniugare. Il cardinale Peter Turkson si è premurato di ricordarlo ieri a Yaoundé,
in Camerun, ai partecipanti al primo Congresso africano dell’Uniapac, l’Unione cristiana
imprenditori dirigenti. Portando il saluto di Papa Francesco, il presidente del Pontificio
Consiglio Giustizia e pace ha svolto un’ampia riflessione sul modo in cui la Chiesa
intende il mondo degli affari, con l’espressa volontà – ha affermato – di incoraggiarlo
e sostenerlo “in un periodo difficile e impegnativo” come l’attuale, e soprattutto
perché possa assumere “in modo equo e appropriato”, è stato l’auspicio, “le sue importanti
responsabilità nei riguardi della società”.
Punto di partenza del ragionamento
è stata la contrapposizione tra la “logica del mercato” e la “logica del dono”, con
la prima sbilanciata verso la resa economica dell’impresa ma giudicata insufficiente
“nel promuovere lo sviluppo delle persone sul posto di lavoro”. La questione è nota:
la logica del mercato bada al reddito spesso sfruttando le persone che lo producono,
ma – ha sostenuto il cardinale Turkson – è la logica del dono “che umanizza e civilizza
le imprese”, grazie al valore che la anima, ovvero “il principio della gratuità”.
In questo senso, la sfida che si pone in un macrosettore come quello del business
balza subito agli occhi: ci si deve spendere affinché il principio della gratuità
e la logica del dono trovino “posto – ha detto il porporato – nella normale attività
economica”. E qui, il cardinale Turkson ha esercitato sugli imprenditori cristiani
una pressione uguale e contraria a quella che considera il business una terra
di conquista per il solo guadagno d’impresa. Ricordate, ha detto loro, che il “servizio
per il bene comune viene prima degli interessi di un piccolo gruppo”, mentre viceversa
la “divisione tra fede religiosa e attività quotidiane può portare a squilibri e spingere
al culto del successo materiale”. Siamo “chiamati – ha insistito – ad agire in solidarietà
in solidarietà con coloro che non hanno accesso ala proprietà, con il grande numero
di persone che soffrono mentre altri vivono nella ricchezza”. Affermazioni che hanno
riecheggiato molto da vicino gli insegnamenti di Papa Francesco e che il cardinale
Turkson ha ampliato con una constatazione: “Questa visione del mondo degli affari
– ha riconosciuto – è fonte di notevole tensione e non è facile da implementare nel
mondo di oggi”, a causa delle “diverse barriere esterne che possono impedire a un
dirigente di società di plasmare le strutture da questo punto di vista”. Barriere,
ha elencato, che vanno dall’“assenza di norme di legge o di regolamenti” alla “corruzione”,
dall’umana tendenza all’“avidità” alla “cattiva gestione delle risorse”.
I
principi cristiani applicati all’imprenditorialità, dunque, ha sintetizzato il presidente
di Giustizia e Pace, possono essere riassunti in tre obiettivi. Primo, “produrre una
buona proprietà”, con beni e servizi di reale utilità e non indifferenti ai bisogni
dei poveri”. Secondo, rendere le imprese “una buona fonte di lavoro”, perché così
esse sono le prime a “promuovere la speciale dignità del lavoro umano”. Terzo, conseguire
una “buona ricchezza”, che sia cioè equa e non scollegata dall’ambiente naturale e
culturale in cui essa è prodotta. (A cura di Alessandro De Carolis)