Portogallo: la crisi economica si fa crisi di governo. Becchetti: l'Ue fermi le politiche
di austerità
Governo sempre più in bilico in Portogallo, dopo le dimissioni del ministro delle
Finanze, Vitor Gaspar, e quelle - respinte - del ministro degli Esteri, Paulo Portas.
Secondo la stampa, altri ministri sarebbero pronti a lasciare l’esecutivo. Intanto
il presidente della Commissione Ue, Barroso, esprime preoccupazione e auspica che
si eviti il rischio che la credibilità finanziaria del Paese, “appena ricostituita”,
sia “messa in pericolo”. Della situazione dei conti in Portogallo e delle politiche
europee Fausta Speranza ha parlato con Leonardo Becchetti, docente di
economia politica all’Università Tor Vergata di Roma:
R. – E’ un
Paese che è in recessione ormai da tre anni e che per avere il prestito da parte delle
istituzioni internazionali di 78 miliardi, che serviva per far ripartire l’economia,
ha sottoscritto un piano di aggiustamento molto severo, che prevedeva il taglio dei
salari dei dipendenti pubblici e dei pensionati. Il piano era talmente severo che
il governo ha sottoposto la validità di questo piano alla Corte Costituzionale: la
Corte Costituzionale lo ha bocciato!
D. – Qual è il peso del Portogallo nell’Unione
Europea? Abbiamo parlato tanto di Spagna, di Grecia…
R. – Il problema non è
a dimensione del Paese. Il problema è che l’applicazione di politiche sbagliate da
parte dell’Unione Europea rischia di far diventare piccoli problemi dei problemi giganteschi,
in Portogallo o altrove. Peccano di austerità: si pensa che il riequilibrio dei bilanci
possa avvenire attraverso tagli alla spesa pubblica e riduzione dei salari per diventare
più competitivi. Ma questo deprime la domanda interna sia dal lato pubblico che dal
lato privato, riduce il Pil e quindi il rapporto debito-Pil finisce per peggiorare,
invece che migliorare.
D. – La Grecia era arrivata a quel momento così difficile
anche per conti falsati. Il Portogallo com’è arrivato a questo momento di recessione?
Soltanto per la congiuntura negativa?
R. – La situazione del Portogallo è diversa
da quella della Grecia. Non c’erano questi problemi così grossi. Secondo me l’errore
è non fare politiche come quelle americane. Per rispondere alla situazione di oggi,
la strada non è quella di abbassare sempre di più i salari e tagliare la spesa: la
strada è quella di lavorare per far crescere i salari nei Paesi poveri ed emergenti,
evitando il ricatto di questa riduzione del costo del lavoro a livelli bassissimi
- penso alla situazione del Rana Plaza in Bangladesh – e, allo stesso tempo, puntare
su politiche monetarie che siano più espansive. Se noi andiamo a guardare gli Stati
Uniti, gli Stati Uniti hanno ridotto di tre punti il loro tasso di disoccupazione
in questi anni con una politica monetaria espansiva, che ha fatto ripartire la domanda
interna del Paese.
D. – Però resta il problema di un debito pubblico per gli
Stati Uniti e per l’Europa che cresce indiscriminatamente, anche nei confronti della
Cina…
R. – Il problema è che se riparte l’economia reale, anche gli indicatori
di bilancio migliorano. Gli Stati Uniti avevano un rapporto deficit-Pil molto alto:
si sono preoccupati di far ripartire l’economia e oggi quel rapporto deficit-Pil si
sta riducendo significativamente. Quindi il problema è trovare un equilibrio tra gli
eccessi delle politiche giapponesi, che addirittura hanno raddoppiato l’offerta di
moneta e quindi fondamentalmente non si curano del fatto che il loro debito sia il
230 per cento del Pil, all’eccesso dell’Europa che, invece, sta esagerando dal lato
del rigore e dal lato dell’austerità.
D. – L’instabilità politica di questo
momento, non aiuta certo il Portogallo…
R. – Questo senz’altro. Però l’instabilità
politica deve essere messa in conto, perché quando si insiste in maniera esasperata
con l’austerità, è evidente che non si può pensare che la tenuta sociale del Paese
sia eterna. Fa parte dei conti che vanno comunque fatti!