Nuovi sbarchi a Lampedusa, oltre 300 immigrati nell'isola. L'8 luglio la visita di
Papa Francesco
Cresce l'attesa per la visita del Papa a Lampedusa il prossimo 8 luglio. Un viaggio
nato dal desiderio del Pontefice di incoraggiare alla solidarietà verso i migranti
che cercano una nuova speranza lasciando i propri Paesi. Proprio nelle ultime ore
vi sono stati due sbarchi sull'isola, uno martedì sera l'altro ieri mattina, con oltre
300 migranti tra cui alcune donne incinte e alcuni bambini. Già nel marzo scorso,
subito dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro, il parroco della Chiesa di San
Gerlando a Lampedusa, don Stefano Nastasi, aveva inviato una lettera a Papa
Francesco invitandolo a visitare l'isola. Fabio Colagrande ha intevistato il
sacerdote:
R. – Pensavo
che la cosa potesse essere presa in considerazione, ma non così presto. Mai avrei
immaginato che il primo viaggio del Papa fuori dalla diocesi di Roma fosse proprio
a Lampedusa.
D. – E come ha reagito, quando l’ha saputo?
R. - All'inizio
sono rimasto incredulo, ma poi ho sentito, più che capito, molto vicino il cuore del
Papa, fin dal primo momento. In quel momento, ho percepito la forte vicinanza del
cuore del Papa a questa comunità.
D. – Cosa aveva scritto in quella lettera
del marzo scorso?
R. – In quella lettera ho presentato per sommi capi quello
che la comunità ha vissuto in questi anni e, nello stesso tempo, ho immaginato che
le lacrime di commozione del Papa, al momento della sua elezione, si potessero mescolare
con le lacrime di sofferenza, di dolore di ogni uomo e donna, comprese anche le nostre,
di chi vive sull’isola il quotidiano, e di chi transita su quest’isola a causa dell’immigrazione.
D.
– Quando la notizia è stata ufficializzata, qual è stata la reazione dei suoi parrocchiani?
R.
– C’è stata un po’ d’incredulità sul volto di molti. Qualcuno mi ha chiamato e mi
ha detto: “Mi tremano le gambe!”. Ed io: “Stai tranquillo!Non bisogna fare così!”.
E’ chiaro che c’è molta emozione, commozione ed anche molto senso di responsabilità
per certi versi, perché comprendiamo bene come noi tante volte, come comunità, raccontando
la sofferenza condivisa, i pesi condivisi, abbiamo cercato di alzare la voce nei confronti
dell’Europa. Se da un lato, infatti, Lampedusa è la parte finale, periferica dell’Europa,
è pur vero che è la sua porta d’ingresso, che ci guarda dall’Africa. A partire da
questo, penso che abbiamo una grossa responsabilità. Abbiamo raccontato, infatti,
finora, tanta sofferenza, ma ora è il momento, per noi e per il resto della nazione,
di ascoltare quello che il Successore di Pietro ha da dirci, da suggerirci, a partire
dalla Parola di Dio.
D. – Come commenta il fatto che la visita, come ha spiegato
la Sala Stampa vaticana, si realizzerà nella forma più discreta possibile?
R.
– Penso che si incastoni in quello che è sempre stato il clima di questa realtà, che
noi abbiamo vissuto. E’ un’intimità del cuore che vuole essere manifestata, senza
un’esposizione esterna esagerata o senza dare spazio a ciò che poi magari ci può fare
allontanare dalla riflessione di quello che è stato vissuto, e che è vissuto ancora
oggi, su questo territorio. Penso che la visita a Lampedusa vada letta a partire dalle
parole pronunciate da Papa Francesco durante la Settimana Santa, quando ha invitato
la Chiesa ad andare verso le periferie, geografiche ma anche esistenziali. In quelle
parole ho riletto la nostra storia quotidiana, perché noi siamo, è vero, una periferia
geografica, ma, allo stesso tempo, abbiamo sperimentato, e sperimentiamo, l'incontro
con le periferie esistenziali. E il Papa ci ha detto più volte che è proprio dalle
periferie che possiamo guardare meglio al centro e proprio dalle periferie esistenziali
possiamo leggere meglio il cuore dell'uomo. Noi ci troviamo perfettamente d’accordo,
perché comprendiamo il significato pieno di quelle parole. E’ partendo dalla periferia
che comprendiamo meglio il centro e il resto.
D. – La Sala Stampa ha spiegato
cosa vuole fare il Papa: pregare per coloro che hanno perso la vita in mare; visitare
i superstiti e i profughi presenti, ma anche incoraggiare gli abitanti dell’isola...
R.
– Sicuramente hanno bisogno di esser confermati, per certi versi, nella logica della
carità e dell'accoglienza spicciola, semplice, senza pianificazione, rimandata tante
volte alla giornata, all’immediato, al bisogno che durante la giornata si presenta.
Può sembrare qualcosa di poco pianificato e per certi versi lo è, ma sicuramente è
qualcosa che è dettato dal cuore. Penso che il Papa verrà a confermare alla comunità
di Lampedusa tutto questo, ma partendo da questa comunità, rivolgerà anche una parola
al resto del mondo, della Chiesa. Credere, infatti, all’amore, credere alla carità
è ancora possibile. In molti forse hanno smarrito questa fiducia. Bisogna però recuperare
questa fiducia nella possibilità che la carità, la condivisione, ancora possono moltiplicare
quel poco che si ha e quel poco che si è, e divenire comunione per tutti.
E
sempre sulla visita del Papa a Lampedusa, Fabio Colagrande ha sentito padre
Giovanni La Manna, gesuita, presidente dell’Associazione Centro Astalli di Roma,
che da tempo lavora a fianco dei rifugiati:
R. - Sono veramente
contento che il Papa abbia preso questa decisione. Il Papa ha sempre invitato tutti
noi a vedere nel volto dei rifugiati il volto di Cristo. Non si sottrae nemmeno lui
- per dare l’esempio - a questo incontro in un luogo triste dove la nostra umanità
è portata al limite. Nel Mediterraneo non possiamo dimenticare che ci sono troppi
morti: si parla di 20 mila persone che in questi anni hanno perso la vita nel Mediterraneo.
Ora sapere che Papa Francesco ha chiesto di andare lì - in forma discreta, perché
i luoghi di sofferenza meritano profondo rispetto - è una testimonianza che ci incoraggia
a rimanere nel servizio di queste persone che hanno pagato già un prezzo altissimo
per rimanere in vita, scappando da guerre, da conflitti, da persecuzioni nelle quali
anche noi dovremmo riconoscere una nostra parte di responsabilità.
D. – La
Chiesa non solo denuncia quanto sta accadendo nel Mediterraneo, ma è consapevole che
esistono delle risposte concrete che si potrebbero dare a questa continua carneficina
che avviene nelle acque del Mare nostrum…
R. – La Chiesa fa già tanto: accoglie
in maniera progettuale il fenomeno dei migranti, dei rifugiati che è in crescita.
Purtroppo non riusciamo a pacificare il nostro mondo. Non possiamo accontentarci di
quello che già oggi noi riusciamo a fare. Per questo l’appello è ad aprire le nostre
comunità per essere un segno, una testimonianza concreta; chiediamo alle famiglie,
alle famiglie di credenti di aprire le porte - così come è già avvenuto e avviene
in altri Paesi - a questi fratelli, a queste sorelle che devono sperimentare nella
prima accoglienza il calore di un’umanità che non è indifferente.
D. – Esistono
delle risposte politiche concrete che si potrebbero dare a quello che avviene nel
Mediterraneo?
R. – Se il Mediterraneo è diventato da “culla di civiltà”, a
“cimitero”, è responsabilità dell’intera comunità internazionale. A questa comunità
innanzitutto chiediamo canali umanitari sicuri per impedire che le persone continuino
a trovare la morte nella traversata. Consentiamo loro di liberarsi dei trafficanti.
Tenere in piedi questo traffico io mi chiedo a chi conviene. Quindi la prima cosa
che la politica - che ha la responsabilità di governare - deve fare è salvare vite
umane; secondo, intervenire diplomaticamente per ridurre i conflitti e quindi ridurre
il numero di persone che sono costrette a scappare.