Egitto. Il premier annuncia le dimissioni, i militari si schierano con la piazza
Si infiamma il clima in Egitto. Il premier Hisham Qandil ha rimesso il suo mandato
nelle mani del presidente Mohamed Morsi. Una decisione per cercare di allentare le
tensioni in atto. Si sono dimessi anche i portavoce del presidente e del governo.
Da parte sua, l'Alto commissariato Onu per i diritti umani ha lanciato un appello
al capo dello Stato affinché ascolti le richieste del popolo, espresse durante le
proteste degli ultimi giorni e ha chiesto alle parti di avviare ''un serio dialogo
nazionale''. Intanto rimane confermato per questo pomeriggio, alle 17.00, l’ultimatum
dell’opposizione che chiede le dimissioni del presidente ed elezioni anticipate. Ieri,
Morsi ha respinto l'ultimatum delle Forze armate che ormai sono schierate con la piazza.
Su questo aspetto Massimiliano Menichetti ha intervistato Gennaro Gervasio,
docente di Storia e politica del Medio Oriente alla British University del Cairo:
R. - È fondamentale
che gran parte dei manifestanti hanno salutato, quasi come una vittoria, l’ultimatum
dell’esercito che è quello più importante rispetto a quello della disobbedienza civile.
Molti immaginavano che l’esercito avrebbe potuto sentirsi in dovere di intervenire
per arginare il caos - che in realtà ha contribuito a creare negli scorsi mesi -,
però in pochi si aspettavano che ciò avvenisse subito dopo la grande manifestazione
del 30 giugno.
D. - C’è già chi parla di un golpe dei miliari …
R. -
Golpe … diciamo si parla di annuncio o comunque di un tentativo, di una possibilità
di rientrare direttamente nello scenario da cui i militari erano usciti ufficialmente
proprio il 30 giugno dell’anno scorso.
D. - Ma come è possibile che i militari
rientrino in scena in questo modo?
R. - La polarizzazione è diventata tale
da ritenere che un intervento dell’esercito possa emarginare definitivamente i Fratelli
musulmani. Però, secondo me ci sono due problemi: innanzi tutto le intenzioni dell’esercito
- supportato da una parte del gruppo dei ribelli Tamarrod che avevano votato per Shafik
contro Morsi alle elezioni di un anno fa - sono tutt’altro che certe, compresa la
road map di cui parlano e di cui non abbiamo alcuna idea, se non un passato
poco promettente. Il secondo problema riguarda il fatto che i Fratelli musulmani non
credo accetteranno di buon grado di uscire di scena in questo modo. Credo che ci sia
una grossa miopia, e immagino che, al di là delle dichiarazioni, la leadership dei
Fratelli musulmani stia cercando di trattare in qualche modo con l’esercito come è
sempre avvenuto.
D. - Ma secondo lei, il presidente Morsi ha ancora margini
di manovrabilità?
R. - Io penso di sì, però si stanno riducendo minuto dopo
minuto. Quello che avrebbe potuto fare - chiaramente - sarebbe stato cercare di formare
un governo di unità nazionale più inclusivo. Però, dopo la presa di posizione dei
militari, credo che alcuni dell’opposizione in piazza, dove ci sono moltissimi che
sono contro i Fratelli musulmani, prima di tutto, non si accontentano più di questa
scelta, perché hanno letto l’ultimatum dell’esercito come un atto di sfiducia contro
il presidente.
D. - Quali azioni dovrebbe intraprendere il presidente?
R.
- Forse soltanto quella che però sarebbe comunque la parola “fine” per lui, cioè la
richiesta di elezioni anticipate. Persino i salafiti - il gruppo più moderato che
aveva sempre appoggiato Morsi al di là di alcune scaramucce retoriche, il partito
Nour, che comunque era il secondo partito islamico egiziano nelle elezioni del disciolto
parlamento - ha annunciato il ritiro del supporto a Morsi. Adesso insieme al resto
dell’opposizione chiede le dimissioni e di avviarsi a elezioni anticipate. Alcuni
poi chiedono che ci sia un referendum, ci troviamo davanti a scenari che non sono
mai stati percorsi prima d’ora, in cui tutto è possibile.
D. - Le Nazioni Unite
sono preoccupate per un possibile effetto domino sulla regione?
R. - L'effetto
domino è già in azione. C’è la dinamica turca, c’è la guerra civile siriana, c’è la
situazione in Libia che è tutt’altro dall’essere stabilizzata … È chiaro che l’Egitto,
in quanto Paese più popoloso, in quanto Paese dove la rivoluzione ha avuto anche una
risonanza internazionale, rimane da monitorare. Però, dal mio punto di vista, il fatto
che ancora una volta la politica dal basso si sia imposta su quella alta, è un invito
importante alla riflessione non solo a livello regionale ma a livello internazionale.
Non possiamo confondere democrazie consolidate con democrazie in divenire in cui la
legittimità popolare non viene espressa soltanto nelle urne.