Crisi politica in Egitto. Le Forze armate potrebbero sospendere la Costituzione
In Egitto. Dopo l’ultimatum dell’esercito, è caos sul fronte politico: 5 ministri
e il portavoce del governo Morsi si sono già dimessi, e il premier Kandil si dice
pronto a rimettere il suo mandato. Nella bozza del piano messo a punto dalle forze
armate anche la sospensione della Costituzione e lo scioglimento del Parlamento. Appelli
al dialogo dall’Onu e dal capo della Casa Bianca, Barak Obama, ma le manifestazioni
non si fermano. Cecilia Seppia:
Dopo aver
respinto l’ultimatum dell’esercito, il presidente egiziano Mohamed Morsi appare sempre
più isolato. 5 i ministri che hanno lasciato l’esecutivo, altri 2 in forse e ora anche
il suo braccio destro Kandil si è detto pronto a dimettersi pur di allentare la crisi
in atto. Continueremo a seguire il nostro piano per la riconciliazione, dice il capo
di stato, che intanto convoca riunioni d’emergenza, compresa quella, con il leader
delle forze armate, Fattah al Sisi, ma la voce della piazza torna a farsi sentire,
con sit in e proteste davanti al palazzo presidenziale e il blocco dei governatorati
in 12 città, tra cui Alessandria e Suez, con i soldati che hanno iniziato a controllare
le strade. Nella road map messa a punto dall’esercito per facilitare la transizione,
anche la sospensione della Costituzione, lo scioglimento del Parlamento, e la creazione
di un Consiglio ad interim questo ovviamente solo nel caso di una mancata intesa con
Morsi. L’opposizione dal canto suo ribadisce di non voler assecondare nessun golpe
militare, ma di battersi per nuove elezioni presidenziali. Intanto la magistratura
mostra il pugno duro con il reintegro del procuratore generale, cacciato da Morsi
a novembre perché accusato di parteggiare per i Fratelli Musulmani. Durante la notte
la telefonata di Obama a Morsi e il monito a lavorare per il dialogo, rilanciato anche
dall’Onu.
Dal Cairo il servizio di Giuseppe Acconcia:
La crisi politica
si aggrava. L'esercito potrebbe disporre la sospensione della Costituzione e lo scioglimento
del Parlamento. Il premier egiziano Hesham Qandil ha rimesso il suo mandato nelle
mani del presidente Mohammed Morsi. I due portavoce della presidenza della Repubblica
Omar Amer e Ihab Fahmy hanno presentato le loro dimissioni. Dal canto suo, dopo aver
respinto la richiesta di dimissioni, la presidenza diffonderà un comunicato nelle
prossime ore. Mentre i Fratelli musulmani avvertono i dimostranti di rischi di violenze
per chi scenderà in piazza oggi. Le opposizioni hanno assicurato che non sosterranno
un golpe militare. I manifestanti anti-Morsi, impegnati nella campagna di raccolta
firme per le sue dimissioni Tamarod (ribellione) hanno avviato una serie di iniziative
di disobbedienza civile, bloccando l'accesso alle sedi di dodici dei 27 governatorati.
Ieri,
dunque Morsi ha respinto l'ultimatum delle Forze armate che ormai sono schierate con
la piazza. Su questo aspetto Massimiliano Menichetti ha intervistato Gennaro
Gervasio, docente di Storia e politica del Medio Oriente alla British University
del Cairo:
R. - È fondamentale
che gran parte dei manifestanti hanno salutato, quasi come una vittoria, l’ultimatum
dell’esercito che è quello più importante rispetto a quello della disobbedienza civile.
Molti immaginavano che l’esercito avrebbe potuto sentirsi in dovere di intervenire
per arginare il caos - che in realtà ha contribuito a creare negli scorsi mesi -,
però in pochi si aspettavano che ciò avvenisse subito dopo la grande manifestazione
del 30 giugno.
D. - C’è già chi parla di un golpe dei miliari …
R. -
Golpe … diciamo si parla di annuncio o comunque di un tentativo, di una possibilità
di rientrare direttamente nello scenario da cui i militari erano usciti ufficialmente
proprio il 30 giugno dell’anno scorso.
D. - Ma come è possibile che i militari
rientrino in scena in questo modo?
R. - La polarizzazione è diventata tale
da ritenere che un intervento dell’esercito possa emarginare definitivamente i Fratelli
musulmani. Però, secondo me ci sono due problemi: innanzi tutto le intenzioni dell’esercito
- supportato da una parte del gruppo dei ribelli Tamarrod che avevano votato per Shafik
contro Morsi alle elezioni di un anno fa - sono tutt’altro che certe, compresa la
road map di cui parlano e di cui non abbiamo alcuna idea, se non un passato poco promettente.
Il secondo problema riguarda il fatto che i Fratelli musulmani non credo accetteranno
di buon grado di uscire di scena in questo modo. Credo che ci sia una grossa miopia,
e immagino che, al di là delle dichiarazioni, la leadership dei Fratelli musulmani
stia cercando di trattare in qualche modo con l’esercito come è sempre avvenuto.
D.
- Ma secondo lei, il presidente Morsi ha ancora margini di manovrabilità?
R.
- Io penso di sì, però si stanno riducendo minuto dopo minuto. Quello che avrebbe
potuto fare - chiaramente - sarebbe stato cercare di formare un governo di unità nazionale
più inclusivo. Però, dopo la presa di posizione dei militari, credo che alcuni dell’opposizione
in piazza, dove ci sono moltissimi che sono contro i Fratelli musulmani, prima di
tutto, non si accontentano più di questa scelta, perché hanno letto l’ultimatum dell’esercito
come un atto di sfiducia contro il presidente.
D. - Quali azioni dovrebbe intraprendere
il presidente?
R. - Forse soltanto quella che però sarebbe comunque la parola
“fine” per lui, cioè la richiesta di elezioni anticipate. Persino i salafiti - il
gruppo più moderato che aveva sempre appoggiato Morsi al di là di alcune scaramucce
retoriche, il partito Nour, che comunque era il secondo partito islamico egiziano
nelle elezioni del disciolto parlamento - ha annunciato il ritiro del supporto a Morsi.
Adesso insieme al resto dell’opposizione chiede le dimissioni e di avviarsi a elezioni
anticipate. Alcuni poi chiedono che ci sia un referendum, ci troviamo davanti a scenari
che non sono mai stati percorsi prima d’ora, in cui tutto è possibile.
D. -
Le Nazioni Unite sono preoccupate per un possibile effetto domino sulla regione?
R.
- L'effetto domino è già in azione. C’è la dinamica turca, c’è la guerra civile siriana,
c’è la situazione in Libia che è tutt’altro dall’essere stabilizzata … È chiaro che
l’Egitto, in quanto Paese più popoloso, in quanto Paese dove la rivoluzione ha avuto
anche una risonanza internazionale, rimane da monitorare. Però, dal mio punto di vista,
il fatto che ancora una volta la politica dal basso si sia imposta su quella alta,
è un invito importante alla riflessione non solo a livello regionale ma a livello
internazionale. Non possiamo confondere democrazie consolidate con democrazie in divenire
in cui la legittimità popolare non viene espressa soltanto nelle urne.