50 anni fa l'elezione di Paolo VI, un Pontificato nel segno dell'Apostolo delle genti
Il 21 giugno 1963, venne eletto al Soglio Pontificio Paolo VI. Papa Montini, in precedenza
arcivescovo di Milano, guidò la Chiesa per 15 anni in un periodo storico, fino al
1978, costellato da molti cambiamenti e tensioni sociali che Paolo VI però affrontò
radicando in Cristo tutto il suo Magistero. Ce ne parla Benedetta Capelli:
"Annuntio
vobis gaudium magnum; habemus Papam (applausi) Eminentissimum et Reverendissimum Dominum,
Dominum Joannes Baptista…".
E’ il primo giorno di estate del 1963. Il sole
illumina Piazza San Pietro e migliaia di persone accolgono con un lungo applauso e
con uno sventolio di fazzoletti l’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni
Battista Montini, bresciano di Concesio, che sceglie il nome di Paolo VI. Era un devoto
dell’Apostolo delle Genti, nei suoi appunti, lo definì il “primo teologo di Gesù Cristo”,
colui che “portò il Vangelo al mondo con criteri di universalità, prototipo della
cattolicità”. Una scelta che anticipava un tratto del suo Pontificato: l’evangelizzazione;
fu infatti il primo Papa a prendere un aereo, nei suoi 15 anni sul soglio di Pietro
visitò tutti e 5 i continenti. Ai fedeli presenti impartì la Benedizione Apostolica:
"Sit
nomen Domini benedictum…"
E otto giorni dopo l’inizio del suo magistero,
nella Solennità dei Santi Pietro e Paolo, così parlava del compito che lo attendeva:
“Il
Signore ha voluto mettere sulle mie povere spalle, forse perché erano le più deboli
e le più idonee a mostrare che non è Lui che vuole qualcosa da me. Ma è Lui che vuole
dare a me la sua assistenza e la sua presenza e vuole agire su di me - strumento più
debole - per mostrare la sua potenza, la sua libertà e la sua bontà”.
Nel
corso della stessa celebrazione, Paolo VI non mancò di sottolineare l’affetto e il
legame con i suoi paesani di Concesio, i fedeli dell’arcidiocesi di Milano e tutto
il popolo di Dio al quale si rivolse chiedendo preghiere:
“Non so che sarà
di me, ma io dico una cosa: in quel giorno – e potrebbe essere ogni giorno del mio
calendario – io mi troverò stanco, oppresso e sentirò di essere come Simone debole
e vacillante, capace di ogni infedeltà. Allora penserò che voi mi siete vicini con
la vostra preghiera e voi fatemi un regalo: la vostra affezione e la vostra preghiera”.
(applausi)
Innamorato di Cristo e radicato nel Vangelo, nella sua lunga
carriera diplomatica Paolo VI fu anche un pastore appassionato. Al microfono di Benedetta
Capelli, mons. Ettore Malnati, autore del libro “I gesti profetici di Paolo
VI”, edito da Ancora:
R. – Bisogna
entrare nell’animo, nella sensibilità di questo Pontefice: è la sua grande attenzione
nei confronti dell’uomo coinvolto nella modernità, nelle dimensioni positive, nelle
dimensioni negative. Il gesto fondamentale è la vicinanza della Chiesa al mondo nell’ascolto
del mondo, perché anche il mondo può dare alla Chiesa un insegnamento. Questo sarà
poi recepito nella Costituzione pastorale della Gaudium et Spes. Quindi, leggendo
questo criterio montiniano noi comprendiamo tutti i vari gesti – piccoli e grandi
– il suo voler ripartire dalla Terra Santa, la sua offerta della tiara per i poveri,
la sua attenzione per i lavoratori. Poi, soprattutto, il grande gesto: non far perdere
la profezia di Giovanni XXIII che ha voluto il Concilio.
D. – Quindi, dentro
al mondo ma non del mondo...
R. – Non del mondo ma amando il mondo. Non significa
essere controversi con il mondo, ma accompagnarlo come “buon samaritano” perché il
mondo possa dare alla Chiesa l’opportunità di svolgere la sua missione di speranza
e se vogliamo anche di “medico”. Ma anche cogliere dal mondo quelle che sono le urgenze,
le necessità che il mondo ha nei confronti dell’evangelizzazione e di Dio. Bisogna
dare al mondo la verità: Dio e Cristo. Ma anche alla Chiesa bisogna dare la verità:
non un uomo stereotipato, ma l’uomo nella sua dimensione storica, nella sua fatica
ed anche nelle sue imprese.
D. – Le cronache del tempo, però, lo hanno spesso
lo hanno dipinto come un uomo “schiacciato” dal proprio tempo...
R. – Sì, certo,
l’uomo “amletico”... Ma di amletico c’è poco o niente nella vita di Paolo VI. Era
un uomo molto sereno, ma soprattutto molto responsabile. Siamo nel ’68, ferve il mondo
della contestazione: ricordo quando ero a Roma a studiare, nei primi anni Settanta,
ogni mercoledì c’era un corteo, c’era una manifestazione, c’era uno sciopero e si
impediva in tutti i modi che il messaggio del mercoledì di Paolo VI potesse raggiungere
con serenità coloro che volevano cogliere il Magistero petrino. Paolo VI fu un uomo
con un grande senso di responsabilità del ruolo al quale lo Spirito Santo e i cardinali
lo avevano chiamato.
D. – La radicalità evangelica e questo proporsi sempre
come Vescovo di Roma lo fanno assomigliare in alcuni tratti a Papa Francesco?
R.
– Basterebbe prendere le registrazioni delle omelie a braccio che Paolo VI ha fatto
alle parrocchie romane: richiamando il suo ministero da sacerdote nelle periferie,
Papa Francesco ci richiama e ci dice che bisogna andare nelle periferie e Paolo VI
amava andare nelle periferie, lo amava già da arcivescovo di Milano. Lui pensa di
fare delle periferie il centro della comunità: non solo la Chiesa, ma anche l’oratorio,
la casa parrocchiale, il suo andare costantemente nelle fabbriche. Venne messa una
bomba nell’arcivescovado di Milano, perché lui era chiamato “l’arcivescovo rosso”,
quasi che il suo andare verso gli operai, le persone più in difficoltà, fosse una
scelta ideologica. No, era una scelta da pastore, era una scelta cristiana, e per
questo Giovanni XXIII fa di lui il primo dei suoi cardinali, facendo sì che tutto
il mondo cattolico conoscesse questo vescovo così attento alla modernità. Proprio
questa attenzione di Papa Giovanni farà sì che i conclavisti lo scelgano poi come
successorie di Papa Roncalli.
Saranno quasi cinquemila i pellegrini della diocesi
di Brescia che domani saranno ricevuti dal Papa, nel 50.mo anniversario dell’elezione
di Papa Paolo VI. Un’iniziativa che rientra nell’Anno della Fede. Ma quanto ha inciso
la figura di Papa Montini nella vita della diocesi di Brescia? Benedetta Capelli
lo ha chiesto al vescovo. mons. Luciano Monari:
R. – La mia
impressione è che la presenza viva cresca: mano che andiamo avanti, il ricordo di
Papa Montini venga sentito intensamente per tutto quello che ha significato per la
Chiesa. A me sembra che il suo ricordo cresca.
D. – Domani, avrete questo
importante pellegrinaggio dal Papa: come vi siete preparati all'incontro con Papa
Francesco?
R. – Abbiamo vissuto quest’Anno della Fede riprendendo il filone
di quella professione di fede che fece, ai suoi tempi, Paolo VI come proposta a tutta
la Chiesa. Questo ci ha aiutato un pochino a riprendere il cammino nostro, a rivedere
lo stesso cammino che abbiamo fatto in questi anni e verificare le difficoltà che
abbiamo incontrato, che sono state notevoli, però lo abbiamo fatto con quello spirito
con cui le ha affrontate Papa Montini. Paolo VI aveva una percezione importante delle
incoerenze del mondo, ma anche una specie di stima profonda per l’uomo, in tutto quello
che l’uomo ha fatto, e quindi anche nella dimensione della cultura, della società,
della scienza. A noi piacerebbe riprendere questo spirito per affrontare le situazioni
che sono già nuove, rispetto a quelle che ha dovuto affrontare lui, ma che hanno bisogno
dello stesso spirito, credo, per essere affrontate in modo costruttivo.
D.
– Personalmente, lei che ricordo ha di Paolo VI?
R. – Il ricordo di Paolo VI
è di quando era arcivescovo di Milano: io ero studente al Seminario lombardo e quindi
ogni tanto veniva, passava, celebrava con noi. Ricordo il saluto che ci diede prima
di entrare in Conclave: ci aveva esortato a non dare troppo retta a quello che stavano
scrivendo i giornali sul Conclave, ma di cercare invece di leggere quell’avvenimento
alla luce della fede, nella prospettiva dell’azione che il Signore, con il suo Spirito,
continua a operare nella Chiesa. Questo me lo ricordo benissimo: perché eravamo davanti
al Seminario e venne a salutarci proprio prima di entrare.