Appello del Papa per i rifugiati: hanno bisogno di comprensione e ospitalità
A conclusione dell'udienza generale di mercoledì mattina, Papa Francesco ha ricordato
la Giornata Mondiale del Rifugiato. Il servizio di Francesca Sabatinelli:
E’ alle famiglie
rifugiate che va il pensiero del Papa alla viglia della Giornata mondiale. Papa Francesco
invita tutti a considerare la loro situazione, perché spesso costrette “a lasciare
in fretta la loro casa e la loro patria e a perdere ogni bene e sicurezza per fuggire
da violenze, persecuzioni, o gravi discriminazioni a motivo della religione professata,
dell’appartenenza ad un gruppo etnico, delle loro idee politiche”:
“Oltre
ai pericoli del viaggio, spesso queste famiglie si trovano a rischio di disgregazione
e, nel Paese che li accoglie, devono confrontarsi con culture e società diverse dalla
propria”.
Di qui, il forte appello del Papa:
“Non possiamo essere
insensibili verso le famiglie e verso tutti i nostri fratelli e sorelle rifugiati:
siamo chiamati ad aiutarli, aprendoci alla comprensione e all’ospitalità. Non manchino
in tutto il mondo persone e istituzioni che li assistano: nel loro volto è impresso
il volto di Cristo!”
Beatriz Ngoie Mbullumba è della Repubblica
Democratica del Congo. E’ fuggita dal suo Paese nel 2006, alla vigilia delle prime
elezioni democratiche dopo decenni. Allora aveva 36 anni e una laurea in Economia
dello Sviluppo, conseguita in una università cattolica di Kinshasa, la sua città.
Le sue idee l’hanno condotta in carcere e l’hanno costretta a subire violenze. Oggi
è rifugiata a Roma, dove studia Scienze infermieristiche, poiché il suo precedente
titolo di studio non è stato riconosciuto. E la sua idea di accoglienza è ben lontana
da quella che ha ricevuto in Italia:
R. – Ho lavorato come formatrice per un’organizzazione
non governativa e durante gli incontri che si tenevano con la popolazione ho detto
di scegliere le persone giuste per governare il Congo. Quella era per noi la prima
occasione, dopo 46 anni, per avere elezioni democratiche. Quindi, non bisognava sprecarla,
occorreva scegliere persone che avessero nei progetti un futuro di pace, che aiutassero
la popolazione a vivere, ad andare avanti. Questo era il mio discorso.
D. –
Però, Beatrice, il tuo discorso a qualcuno non è piaciuto...
R. – A causa della
povertà, spesso la gente va a dire bugie a quelli che hanno il potere, per guadagnare
qualcosa. E qualcuno è andato a riferire quello che avevo detto, il mio discorso.
Hanno mandato alcune persone ad arrestarmi. Mi hanno preso e mi hanno portato in carcere.
Era un carcere illegale, dove mettono le persone che non condividono…
D. –
Vuoi dire, per i reati di opinione?
R. – Sì, per questo. La mia situazione
era questa: mi hanno fermato e mi hanno messo in un carcere illegale. Mi ha salvata
un vicino di casa, un colonnello, che in quel periodo faceva parte dell’esercito.
E’ lui che ha aiutato la mia famiglia a ritrovarmi, lì dove stavo. Quando sono venuti
ad arrestarmi, a casa, mi hanno picchiato, dicendomi: “Tu sei una donna, perché fai
le cose degli uomini e ti occupi di politica? Che c’entra? Non puoi fare altre cose?”.
Hanno detto tutto ciò che potevano dirmi, mi hanno picchiato. Poi, mi hanno portato
in carcere, dove ho passato tre giorni. Dopo, un parroco mi ha ospitato, perché non
potevo tornare a casa, lì dove mi avevano preso, e da lì poi sono scappata in Congo
Brazzaville.
D. – Ecco che il tuo viaggio ti porta a Roma...
R. – La
mia preoccupazione era la mia famiglia. Sono venuta da sola. Era la prima volta che
lasciavo la mia famiglia. Anche adesso sto soffrendo, dopo sette anni, passati senza
vedere nessuno. Mi fa male. Mi chiamano, ma non mi basta. Con il documento che ho
e con quel regime politico in Congo, non posso ritornare nel mio Paese.
D.
– Quando sei arrivata in Italia cosa è successo? Hai avuto delusioni da questo Paese?
R.
– Molte delusioni. Le delusioni sono cominciate quando sono andata a prendere il treno
per Foggia, dove la Questura di Roma mi ha mandato per l’identificazione. La Questura
mi aveva dato un documento da mostrare al controllore del treno, perché non potevo
pagare il biglietto, non avendo i soldi. Ma il controllore non voleva farmi salire,
mi ha detto: “Senza biglietto, tu non puoi salire. Il documento che ti ha dato la
Questura non c’entra nulla con il biglietto, quindi non puoi salire”. Alla fine, però,
ha deciso di farmi salire. Immagina Roma-Foggia: sono cinque o sei ore di viaggio.
Il controllore mi ha detto: “Se vuoi viaggiare, è in piedi, perché non hai posto”.
La mia delusione, quindi, è iniziata quando sono arrivata, perché mi sono sentita
sola, e si è però rafforzata quando quella persona mi ha detto: “Tu fai il viaggio
in piedi”. E ho cominciato a pensare: “Io, in queste condizioni, riuscirò a vivere
in questa terra?” Infine, però, mi sono detta: “Ho lasciato la famiglia e devo darmi
la forza per andare avanti”.
D. – E dopo tanti anni hai ancora quella delusione?
L’Italia è stata d’accoglienza per te?
R. – Sono veramente delusa, perché ho
poco aiuto. Ho un progetto adesso e abbiamo degli esami da fare a luglio, ma devo
pensare a come pagare l’affitto, a come studiare. Devo capire come fare, da sola,
per portare avanti questo progetto. Devo arrivare fino alla fine, perché lasciare
a causa delle difficoltà non ha senso. Voglio solo dare la forza ai rifugiati, che
sono qui in Italia. Dobbiamo usare le capacità che abbiamo, le competenze che abbiamo,
e non scoraggiarci. Dobbiamo andare avanti con la vita. Chissà, domani forse potremo
cambiare le cose.