2013-06-19 15:46:31

Appello del Papa per i rifugiati: hanno bisogno di comprensione e ospitalità


A conclusione dell'udienza generale di mercoledì mattina, Papa Francesco ha ricordato la Giornata Mondiale del Rifugiato. Il servizio di Francesca Sabatinelli:RealAudioMP3

E’ alle famiglie rifugiate che va il pensiero del Papa alla viglia della Giornata mondiale. Papa Francesco invita tutti a considerare la loro situazione, perché spesso costrette “a lasciare in fretta la loro casa e la loro patria e a perdere ogni bene e sicurezza per fuggire da violenze, persecuzioni, o gravi discriminazioni a motivo della religione professata, dell’appartenenza ad un gruppo etnico, delle loro idee politiche”:

“Oltre ai pericoli del viaggio, spesso queste famiglie si trovano a rischio di disgregazione e, nel Paese che li accoglie, devono confrontarsi con culture e società diverse dalla propria”.

Di qui, il forte appello del Papa:

“Non possiamo essere insensibili verso le famiglie e verso tutti i nostri fratelli e sorelle rifugiati: siamo chiamati ad aiutarli, aprendoci alla comprensione e all’ospitalità. Non manchino in tutto il mondo persone e istituzioni che li assistano: nel loro volto è impresso il volto di Cristo!”

Beatriz Ngoie Mbullumba è della Repubblica Democratica del Congo. E’ fuggita dal suo Paese nel 2006, alla vigilia delle prime elezioni democratiche dopo decenni. Allora aveva 36 anni e una laurea in Economia dello Sviluppo, conseguita in una università cattolica di Kinshasa, la sua città. Le sue idee l’hanno condotta in carcere e l’hanno costretta a subire violenze. Oggi è rifugiata a Roma, dove studia Scienze infermieristiche, poiché il suo precedente titolo di studio non è stato riconosciuto. E la sua idea di accoglienza è ben lontana da quella che ha ricevuto in Italia:

R. – Ho lavorato come formatrice per un’organizzazione non governativa e durante gli incontri che si tenevano con la popolazione ho detto di scegliere le persone giuste per governare il Congo. Quella era per noi la prima occasione, dopo 46 anni, per avere elezioni democratiche. Quindi, non bisognava sprecarla, occorreva scegliere persone che avessero nei progetti un futuro di pace, che aiutassero la popolazione a vivere, ad andare avanti. Questo era il mio discorso.

D. – Però, Beatrice, il tuo discorso a qualcuno non è piaciuto...

R. – A causa della povertà, spesso la gente va a dire bugie a quelli che hanno il potere, per guadagnare qualcosa. E qualcuno è andato a riferire quello che avevo detto, il mio discorso. Hanno mandato alcune persone ad arrestarmi. Mi hanno preso e mi hanno portato in carcere. Era un carcere illegale, dove mettono le persone che non condividono…

D. – Vuoi dire, per i reati di opinione?

R. – Sì, per questo. La mia situazione era questa: mi hanno fermato e mi hanno messo in un carcere illegale. Mi ha salvata un vicino di casa, un colonnello, che in quel periodo faceva parte dell’esercito. E’ lui che ha aiutato la mia famiglia a ritrovarmi, lì dove stavo. Quando sono venuti ad arrestarmi, a casa, mi hanno picchiato, dicendomi: “Tu sei una donna, perché fai le cose degli uomini e ti occupi di politica? Che c’entra? Non puoi fare altre cose?”. Hanno detto tutto ciò che potevano dirmi, mi hanno picchiato. Poi, mi hanno portato in carcere, dove ho passato tre giorni. Dopo, un parroco mi ha ospitato, perché non potevo tornare a casa, lì dove mi avevano preso, e da lì poi sono scappata in Congo Brazzaville.

D. – Ecco che il tuo viaggio ti porta a Roma...

R. – La mia preoccupazione era la mia famiglia. Sono venuta da sola. Era la prima volta che lasciavo la mia famiglia. Anche adesso sto soffrendo, dopo sette anni, passati senza vedere nessuno. Mi fa male. Mi chiamano, ma non mi basta. Con il documento che ho e con quel regime politico in Congo, non posso ritornare nel mio Paese.

D. – Quando sei arrivata in Italia cosa è successo? Hai avuto delusioni da questo Paese?

R. – Molte delusioni. Le delusioni sono cominciate quando sono andata a prendere il treno per Foggia, dove la Questura di Roma mi ha mandato per l’identificazione. La Questura mi aveva dato un documento da mostrare al controllore del treno, perché non potevo pagare il biglietto, non avendo i soldi. Ma il controllore non voleva farmi salire, mi ha detto: “Senza biglietto, tu non puoi salire. Il documento che ti ha dato la Questura non c’entra nulla con il biglietto, quindi non puoi salire”. Alla fine, però, ha deciso di farmi salire. Immagina Roma-Foggia: sono cinque o sei ore di viaggio. Il controllore mi ha detto: “Se vuoi viaggiare, è in piedi, perché non hai posto”. La mia delusione, quindi, è iniziata quando sono arrivata, perché mi sono sentita sola, e si è però rafforzata quando quella persona mi ha detto: “Tu fai il viaggio in piedi”. E ho cominciato a pensare: “Io, in queste condizioni, riuscirò a vivere in questa terra?” Infine, però, mi sono detta: “Ho lasciato la famiglia e devo darmi la forza per andare avanti”.

D. – E dopo tanti anni hai ancora quella delusione? L’Italia è stata d’accoglienza per te?

R. – Sono veramente delusa, perché ho poco aiuto. Ho un progetto adesso e abbiamo degli esami da fare a luglio, ma devo pensare a come pagare l’affitto, a come studiare. Devo capire come fare, da sola, per portare avanti questo progetto. Devo arrivare fino alla fine, perché lasciare a causa delle difficoltà non ha senso. Voglio solo dare la forza ai rifugiati, che sono qui in Italia. Dobbiamo usare le capacità che abbiamo, le competenze che abbiamo, e non scoraggiarci. Dobbiamo andare avanti con la vita. Chissà, domani forse potremo cambiare le cose.

Ultimo aggiornamento: 21 giugno







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