La Commissione Europea punta sull'integrazione di migranti e richiedenti asilo
L’Unione Europea deve favorire un’immigrazione regolare ben gestita e politiche di
integrazione, e lavorare per una gestione più moderna ed efficiente dei flussi di
viaggiatori alle sue frontiere esterne. Deve d’altra parte lottare più a fondo contro
la tratta degli esseri umani e affrontare meglio la migrazione irregolare, garantendo
al contempo che siano rispettati i diritti fondamentali dei migranti e dei richiedenti
asilo. Questo, in sintesi, quanto emerge dalla relazione pubblicata dalla Commissione
Europea, in tema di migrazioni e richiedenti asilo. Un documento che chiede una risposta
più coerente da parte dell’Ue. Ma in generale in che modo l’Unione Europea e gli Stati
membri stanno affrontando le sfide e le opportunità della migrazione? Salvatore
Sabatino lo ha chiesto a Stefano Manservisi, direttore generale per gli
Affari Interni della Commissione Europea:
R. – Stiamo
elaborando progressivamente una politica più comune; stiamo utilizzando strumenti
che cercano di confortare i cittadini europei su due terreni: che la migrazione è
necessaria ed è positiva e che, al tempo stesso, non mette a rischio la sicurezza
ed i posti di lavoro; e, ancora, che per ottenere questo risultato bisogna incominciare
da dialoghi importanti con i principali Paesi di origine, in modo da far sì che la
migrazione sia quanto più preparata, assistita e resa positiva tanto per i Paesi di
origine quanto per il Paese di destinazione.
D. – La commissaria per gli affari
interni, Maelstrom, ha dichiarato che si sta creando un sistema europeo comune di
asilo, solidale con le persone vulnerabili, in grado di proteggerle. Ma chi sono queste
persone? E’ possibile tracciare un loro profilo?
R. – Diciamo che le persone
vulnerabili che fanno ricorso all’asilo europeo sono sostanzialmente di due o tre
nature. Il primo gruppo comprende le persone che fuggono dalle zone in conflitto.
Non a caso, vedete che negli arrivi regolari, ma anche con arrivi meno spettacolari,
ci sono molte persone che arrivano dal Corno d’Africa, per esempio, quindi da zone
di instabilità: dall’Eritrea, dalla Somalia o dall’Afghanistan, altra zona in cui
ovviamente la guerra, l’instabilità, la violazione dei diritti spingono queste persone
a cercare protezione, oltre che una vita migliore, altrove. Il secondo gruppo è quello
che attualmente è legato alla crisi in Siria, la cui tipologia è diversa: sono persone
che, in realtà, non hanno più la possibilità fisica di rimanere nel loro Paese ma
non necessariamente chiedono asilo. In effetti, le domande di asilo dei cittadini
che provengono dalla Siria non coprono la totalità degli arrivi: sono persone che
cercano una soluzione almeno temporanea. Un terzo gruppo invece riguarda coloro che
vengono da quei Paesi in cui l’integrazione – ad esempio – di minoranze, come i rom,
non è efficace e quindi sono spinti a cercare una forma di protezione altrove. In
questo contesto, l’accordo sul sistema europeo di asilo è importante perché ha innalzato
gli standard di protezione, li ha resi un po’ più comuni, ha considerato le persone
particolarmente vulnerabili tra i vulnerabili, cioè i minori non accompagnati e le
vittime di tortura o di maltrattamenti. Quindi abbiamo ora una base che è più comune
e migliore, anche per far sì che i richiedenti protezione possano spalmarsi sul territorio
europeo in maniera un poco più omogenea. Non è tanto – o solo – una questione di peso,
ma si tratta di riconoscere che lo spazio comune europeo è uno spazio che comunemente,
a tutti può dare lo stesso livello di protezione.
D. – E’ essenziale, però,
che tutti gli Stati membri dispongano di misure efficaci per promuovere l’integrazione:
questo è un punto dolente. Come risolvere il problema dell’integrazione?
R.
– Il problema dell’integrazione, intanto, forse bisogna identificarlo con caratteristiche
che sono anche mutate. La questione dell’integrazione ora si pone nei confronti di
persone che non sono così estranee al loro Paese di origine: voglio dire, i mezzi
di comunicazione fisica e di comunicazione via telefono, Internet eccetera fanno sì
che i migranti – soprattutto quelli più recenti – portino una cultura che non intendono
in nessun modo lasciare. Quindi è un processo di comprensione reciproca, di strumenti
di comprensione reciproca, di diritti e doveri reciproci e di identificare le vulnerabilità,
in particolare a livello del territorio e degli enti locali. Infatti, le storie di
successo nell’ambito dell’integrazione sono storie di integrazione a livello locale,
quando i comuni, le regioni, le comunità possono sostanzialmente non fare la differenza,
possono permettere di vedere i problemi di riqualificazione professionale, di disoccupazione
come parte di un problema comune e di soluzione comune. Bisogna attualmente investire
sugli strumenti di comunicazione: in questi giorni ho presentato il glossario in arabo
della terminologia migrazione-asilo che abbiamo finanziato insieme al ministero degli
Interni. E’ uno strumento importante perché serve alla mediazione culturale che rimane
comunque estremamente importante, soprattutto nei confronti di appartenenti a comunità
religiose diverse.
D. - Dal punto di vista economico sappiamo che l’Europa
sta attraversando un momento molto particolare, colpita pesantemente dalla crisi.
La migrazione può essere considerata uno strumento per la crescita?
R. – La
migrazione può e deve essere considerato uno strumento per la crescita,
e d’altra parte, l’integrazione non è una misura compensativa: è un investimento.
Infatti, se si investe bene nell’integrazione si investe bene anche nella produttività,
nel contributo che i migranti danno alla crescita. Però, non sono necessariamente
risultati automatici. Cioè, direi che se la migrazione è ben gestita, contribuisce
– e come! – alla crescita, alla creazione di posti di lavoro; se la migrazione non
è gestita bene, può creare problemi tanto nelle società di origine, quanto in quelle
di accoglienza.