Al Festival di Cannes la Roma di Sorrentino e gli orrori del nazismo e dei Khmer rossi
Il mondo che non c’è, che non c’è più, che scompare. Mentre Cannes è invasa da una
folla straboccante di curiosi, gli schermi del Festival si riempiono di memoria, di
viaggi al termine della notte, di ricostruzioni evocative del passato. Tre film, une
finzione e due documentari, hanno coinvolto gli spettatori, come un’ombra del loro
stesso divenire. “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino è la storia di un microcosmo
edonistico estenuato, di un ambiente in lento disfacimento, di un fascino antico,
ormai al tramonto. Il film si snoda intorno ai vagabondaggi del suo personaggio principale,
uno scrittore giornalista, re delle feste mondane, nottambulo, fumatore incallito.
Osservatore disincantato dello svanire dell’età, di un’epoca e dei personaggi che
l’hanno popolata, Jep Gambardella è un uomo nel pieno di quella che lo scrittore Peter
Handke avrebbe chiamato «infelicità senza desideri». Ma è un’infelicità quieta, non
tragica: una constatazione, sovente cinica e divertita, della menzogna delle parole,
dei corpi, dei luoghi destinati ad ospitarli. Roma è sullo sfondo, filmata come da
tempo non si vedeva. La città respira col film, col suo protagonista che l’attraversa
nella notte, nel crepuscolo, nei primi chiarori dell’alba. Sorrentino ha un’abilità
straordinaria nel raccontare per frammenti, con scarti improvvisi di inquadrature
e di sequenze, ciò che resta della «dolce vita». “La grande bellezza” insegue il sogno
di Fellini, lo sfiora, lo spezza. La volgarità allegra e vitalistica degli anni ‘60
diventa qui il ghigno sardonico della morte in attesa. La frenesia della grande illusione
di allora si è trasformata nel grande niente di oggi. Con “Le dernier des injustes”,
Claude Lanzmann compie un passo indispensabile. L’autore di “Shoah” e di altri film
che accompagnano il tortuoso cammino della comunità ebraica nel corso del ventesimo
secolo, sceglie qui di rompere un silenzio durato quasi quarant’anni, riportando alla
luce una lunga intervista al rabbino Benjamin Murmelstein, fatta a Roma nel 1975,
e soprattutto la tragica epopea del ghetto di Terezin. Fatto di un lungo dialogo con
quello che fu l’ultimo presidente del Consiglio ebraico, ma anche di importanti materiali
di archivio e degli interventi dello stesso cineasta davanti alla macchina da presa,
“Le dernier des injustes” racconta la grande menzogna dei nazisti che presentarono
Terezin come la città donata da Hitler agli ebrei, filmandola come un luogo paradisiaco,
quando invece era l’anticamera di una lunga agonia. Murmelstein, «il più anziano degli
ebrei» come spregiativamente lo chiamavano i carnefici, mostra nelle sue parole una
statura eccezionale. Il racconto della sua lunga lotta con Eichmann, allora incaricato
della «soluzione finale», colpisce per la sua lucidità, per la sua precisione, per
la sua saggezza. Murmelstein riuscì a fare emigrare 121 mila ebrei e ad evitare la
liquidazione del ghetto. Lanzmann è stato – è ancora – un grande cineasta della testimonianza,
della memoria. Vederlo sullo schermo ripercorrere i luoghi e i ricordi ci mette di
fronte a una constatazione: ora che la Shoah è nella storia del mondo, coloro che
l’hanno vissuta pian piano scompaiono. Murmelstein e Lanzmann ce ne consegnano le
ultime tracce. Lavora sulla stessa materia, sullo stesso dolore, il cambogiano Rithy
Panh. Il suo Paese, la sua gente, ha vissuto un altro genocidio, un’altra cancellazione.
Testimone diretto della lenta distruzione di un popolo sulla base di un’aberrante
ideologia di eguaglianza e purificazione, il cineasta ci consegna con “L’image manquante”
il risultato di un lavoro eccezionale. Qui non ci sono vittime che ricordano, né materiali
d’archivio che ci mostrino ciò che la vita era, prima. I Khmer rossi hanno proceduto
a un’eliminazione sistematica non solo degli individui, ma della loro stessa memoria.
La rieducazione prevedeva una tabula rasa. Allora, con una pazienza infinita,
Rithy Panh cerca di dare corpo ai suoi ricordi, li ricostruisce con le mani, con un
lento lavoro di artigiano. Il mondo sparito riprende forma negli spazi e nelle figurine
di terracotta. L’esistenza felice dell’infanzia e l’orrore di ciò che venne dopo procedono
nelle parole, nelle musiche, nei pochi frammenti di film rimasti, nelle immagini di
propaganda. Curiosamente, i Khmer rossi presero il potere nel 1975, proprio quando
Lanzmann a Roma raccoglieva la testimonianza di Murmelstein. Il cinema, i film, i
festival, hanno talvolta la forza e il compito di una staffetta. Il testimone passa
di mano in mano, da una memoria all’altra. La Storia sta dietro le spalle. Il presente
avanza con la coscienza di un futuro difficile. (Da Cannes, Luciano Barisone)