"Le città dei non luoghi": il corso del Centro Astalli contro la marginalizzazione
dei rifugiati
La difficile vita dei rifugiati nelle grandi aree urbane europee, le difformità legislative
rispetto al tema della protezione e i possibili modelli di accoglienza da mettere
in atto come sta accadendo in Francia col “Progetto Welcome”. Di tutto questo si è
parlato, ieri, nell’incontro “Le città dei non luoghi”, organizzato dal Centro Astalli
a Roma con la partecipazione di esperti dell’Ue. La tappa di ieri fa parte di un percorso
di approfondimento sul tema che proseguirà fino alla fine mese. Ce ne parla Gabriella
Ceraso:
Sono circa
200 mila, ogni anno, i rifugiati che chiedono protezione raggiungendo l’Unione Europea.
Un quarto la ottiene; ignoto invece il numero di quanti muoiono in mare o su un camion
o nelle prigioni di chi li sfrutta, li froda, li inganna. Sono reduci da guerre, persecuzioni
e torture, sanno le difficoltà cui vanno incontro e comunque fuggono, e ciò che trovano
nelle aree urbane – ed è un paradosso, almeno in Italia – non è un’opportunità, ma
spesso è esclusione e solitudine, come spiega padre Giuseppe La Manna, presidente
Centro Astalli:
“Perché la persona, se io non ho lavorato in maniera progettuale
offrendo opportunità serie per l’autonomia, quando riceve il documento molto probabilmente
deve lasciare il Centro, si ritrova un permesso di soggiorno che gli consente di rimanere
sul territorio, ma a quella protezione riconosciuta su un pezzo di carta non corrisponde
nessun aiuto: un lavoro, un alloggio, opportunità formative... Purtroppo no, tant’è
vero che queste persone vanno in edifici occupati dove mancano i minimi requisiti
per un’accoglienza dignitosa”.
In Europa il tipo di accoglienza varia
da Paese a Paese, per lo più avviene in centri specializzati dove tempi e modalità
cambiano. Isabella Moulet, della sezione francese del Servizio rifugiati dei
Gesuiti:
“La Francia è un Paese che ha una lunga tradizione di accoglienza.
Per esempio, era già relativamente pronta, malgrado il contesto di crisi, a questo
tipo di accoglienza che per Paesi come la Spagna, come la Grecia è stato molto più
difficile. I Paesi del Nord sono pragmatici, quindi hanno questo sistema molto legalista,
molto strutturato. In Danimarca, per esempio, ci sono centri tenuti benissimo, con
trattamenti umani; non si può dire la stessa cosa della Germania, per esempio, o di
Malta”.
Possono passare da 6 mesi a tre anni per l’ottenimento dello statuto
di rifugiato e questo lasso di tempo si può trasformare in esclusione, incomprensioni
e violenze:
“Poco a poco sviluppano un sentimento giustificatissimo di
rigetto, di marginalizzazione che fa sì che anche se ottengono i documenti, spesso
non fanno più lo sforzo di integrarsi”.
Per rimediare a questo, la Francia
ha avviato il “Progetto Welcome”, modello positivo di accoglienza che avviene nelle
case o nei centri religiosi:
“Non accogliamoli soltanto in centri in cui
comunque sono tra di loro e continuano a restare nel loro stato mentale di angoscia,
di paura, di incertezza; accogliamoli in famiglie e in comunità religiose francesi,
con le quali possono incominciare a condividere il quotidiano, la vita e avere un
posto tranquillo in cui riposare la sera, poter andare tranquillamente ai loro corsi
di francese, poter far domande su quello che succede proprio durante la giornata per
capire, perché la culture sono completamente diverse. E abbiamo constatato che i rifugiati
accolti nelle nostre famiglie ottengono lo statuto all’80 per cento. Il che significa
che se una persona è nella condizione di dover difendere la propria posizione, di
raccontare la propria storia e soprattutto di capire con quali parole raccontarla,
perché il modo di esprimersi è totalmente diverso, ha molte più chance.
Poi, chiaramente, per un rifugiato che è accolto in una famiglia, la controparte è
che ci sono decine e decine di francesi che vengono in contatto con il rifugiato,
con la sua vita, con il suo modo di pensare. La famiglia, poi, inviterà dei vicini,
degli amici, i ragazzini ne parleranno a scuola con i compagni, se è una comunità
religiosa le persone che frequentano la comunità cominceranno a conoscerlo … Quindi,
diventa proprio un membro della società e una persona di cui si vede l’umanità e di
cui si capisce meglio il percorso e meglio anche la difficoltà di integrazione. L’idea
di base è proprio l’incontro di due universi che non si conoscono, che altrimenti
non avrebbero nessun motivo e nessuna occasione di entrare in contatto e che hanno
paure e diffidenze reciproche. Quindi, sormontare queste paure e queste diffidenze”.
In
definitiva, cosa chiedere all’Europa in materia di accoglienza e di integrazione?
Ancora padre Giuseppe La Manna, presidente del Centro Astalli:
“Chiederei,
in sede di Unione Europea, di mettere fine alle politiche di contrasto dei flussi
migratori, con l’impiego di quelle risorse a favore di un’accoglienza dignitosa, favorendo
l’arrivo delle persone con canali umanitari sicuri, senza costringerle a rischiare
la vita nella fuga e sottraendole ai trafficanti”.
In Italia, l’appello
è ad uniformare e creare un’omogeneità:
“Sì, un sistema unico, unitario,
con criteri che possano essere verificati per un’accoglienza dignitosa e rispettosa
dei diritti di queste persone”.