A Milano tappa del tour mondiale de “I Promessi Sposi”
Il tour mondiale de “I Promessi Sposi”, iniziato nel 2011 negli Stati Uniti, farà
tappa oggi a Milano, nella Chiesa di San Marco. Lo spettacolo sarà in ricordo di Alessandro
Manzoni e Giuseppe Verdi, in occasione del bicentenario della nascita del compositore.
La rappresentazione avrà musiche verdiane perché, proprio nella stessa chiesa, Verdi
ha diretto la “Messa da Requiem” ad un anno dalla scomparsa di Manzoni. A descrivere
questa esperienza di letteratura, musica e danza è il direttore e interprete Massimiliano
Finazzer Flory, intervistato da Elisa Sartarelli:
R. – Innanzitutto,
abbiamo preso alla lettera l'indicazione di quel novembre del 1628, in cui un curato
di campagna percorre una stradicciola. Questa scena, naturalmente, mette insieme il
paesaggio della natura dell’uomo col paesaggio della natura del mondo. E poi lo sguardo
non poteva che essere quello shakespeariano, perché proprio in quel periodo Manzoni
guardava in particolare a Macbeth per cercare di caricare di dubbi, di domande, di
interrogativi i personaggi.
D. – Possiamo dire che l’"Addio ai monti", per
esempio, potrebbe essere un addio alle nostre certezze. Oppure, che la morte di Cecilia
sia un po’ la morte dei bambini… Quindi, possiamo parlare anche di simbologie legate
alla nostra vita di tutti i giorni?
R. – L’opera manzoniana, come tutti i capolavori,
prosegue il suo cammino a prescindere dal suo autore e parla di noi oggi, come parlerà
domani ai nostri figli e così si avvia a diventare sempre universale. E’ una storia
universale, perché lavora antropologicamente su categorie che sono iscritte nell’uomo.
Allora ogni capitolo, per forza, diventa una situazione simbolica per la mia messa
in scena. La “rivolta del pane” che cos’è oggi se non la rivolta da parte dei giovani
che chiedono conoscenza per nutrire la propria anima e cercare di capire se stessi
e il rapporto con gli altri. La morte di Cecilia è la morte di tutti i bambini, in
nome dei quali noi dobbiamo recuperare un senso non solo di pietà, ma anche di tutela
nei loro confronti... E al tempo stesso l’“Addio ai monti” è l’addio a quelle montagne
dentro di noi che spesso sono, invece, montagne ideologiche: quei paesaggi che pensiamo
come immutabili ma che invece, con noi, ci devono accompagnare lungo il percorso.
E che dire ancora dell’Innominato? Si chiama in questo modo, perché il male c’è, non
ha nome… La battaglia contro il male ad personam è sbagliata. Il bene ha nome
e cognome, il male c’è e noi dobbiamo attraversarlo e sconfiggerlo attraverso l’amore
e in nome dell’amore. E ancora Renzo e Lucia, questi umili, questo popolo è ancora
tra di noi. In un’epoca di crisi, stiamo riscoprendo la categoria dell’umiltà che
non significa essere senza ambizione – perché questi due umili hanno un’ambizione
– ma quella di diventare un’unica cosa. E questo succede.
D. – Dalle coreografie
alle musiche, ai costumi, tutto è rigorosamente italiano…
R. – Questo è uno
spettacolo che, dal 2011 ad oggi, ha fatto praticamente il giro del mondo. Siamo stati
in Nord America, in Sud America, in Europa, in Mongola, in Asia e poi in giugno la
Cina, il Giappone con dieci spettacoli. Ma questo perché la lingua è naturalmente
una lingua che, in qualche modo, ci offre la possibilità di parlare di noi stessi,
di interrogare noi stessi, di capire che soprattutto l’Italia ha una cultura che trascende
la sua dimensione geografica: è una cultura universale e, in qualche modo mi viene
da dire, laicamente ecumenica. Proprio per questo, fuori questa lingua viene vissuta
come un capolavoro, come un’opera d’arte. Del resto, è noto che il linguaggio sia
una delle cose più misteriose e magiche iscritte nella nostra esperienza umana.
D.
– Tra le numerose rappresentazioni in giro per il mondo, ce ne è una che le è rimasta
nel cuore?
R. – Sì, la Mongolia, perché in quell’occasione addirittura, mentre
io recitavo, avevo una duplice traduzione in cirillico e in cinese e quindi era un
momento in cui la nostra internazionalità teneva insieme due, forse tre mondi. Questa
certamente è stata una grande emozione. L’altra, complessivamente, gli Stati Uniti,
dove debuttammo, perché gli Stati Uniti sono ancora un popolo e un Paese che crede
nel racconto, nella narrazione, che si innamora dei romanzi storici e che fa sì che
questi romanzi storici possano diventare anche dei romanzi di formazione di un Paese.