Stato d'emergenza in Nigeria: massiccio dispiegamento di militari contro Boko Haram
“Boko Haram ci ha dichiarato guerra”: lo ha detto il presidente della Nigeria, Goodluck
Jonathan, che ha proclamato lo stato d’emergenza in tre Stati settentrionali, inviando
nuove forze militari contro la setta islamista. Scettici sull’escalation militare
vari politici locali e anche l’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Kaigama, che ha
ricordato la poca efficacia di simili misure in passato. “Non so se questo provvedimento
porterà in breve tempo ad una riduzione delle attività criminali e a ottenere una
maggiore sicurezza”, ha affermato il presule, che però - riporta l'agenzia Fides -
resta in attesa di conoscere “i dettagli di questa iniziativa”. Davide Maggiore
ha chiesto a Marco Massoni, direttore di ricerca per l’Africa del Centro militare
di studi strategici, che significato ha la decisione del presidente nigeriano:
R. - È un segnale
che va in una duplice direzione. Verso l’esterno, nei confronti degli altri Paesi
africani e della Comunità internazionale, a testimonianza della capacità di Goodluck
Jonathan di potersi presentare come candidato credibile per le prossime elezioni
presidenziali, in calendario fra due anni, nel 2015. Questo si lega direttamente a
questioni di politica interna: la legittimità sempre della sua candidatura, vista
dal cartello delle opposizioni nigeriane che si sono riunite e trovano ovviamente
terreno fertile anche presso quegli Stati federali del Nord dove Boko Haram è particolarmente
attivo. Il rischio che l’opposizione possa raggiungere la presidenza potrebbe essere
uno dei motivi per farsi vedere come ‘uomo forte’.
D. - Abbiamo parlato di
un segnale rivolto anche alle classi politiche del Nord, tuttavia le prima risposte
non sembrano essere state positive per Goodluck Jonathan …
R. - In Nigeria
il ricambio del governo e la provenienza - degli stati meridionali, degli stati settentrionali
- è al centro delle discussioni di politica interna da sempre. Un altro aspetto fondamentale
è che comunque la Nigeria sembra uno Stato debole, rispetto al contesto in cui si
trova, e vive - soprattutto la parte settentrionale - lungo la linea di faglia dello
scontro anche con i qaedisti e i jihadisti che hanno favorito la secessione lo scorso
anno della parte settentrionale del Mali. Costoro sono sicuramente interessati a stringere
alleanze, armandosi sempre più.
D. - A livello del governo nigeriano, fino
a poche settimane fa la soluzione più probabile sembrava però un’amnistia per quei
militanti di Boko Haram disposti a rinunciare alla violenza. Perché questo cambio
di strategia? Si può pensare ad un’influenza dell’elemento militare?
R. - E’
molto verosimile che la componente delle forze armate insista per avere una maggiore
visibilità. Un’amnistia con il conseguente rilascio di 400 prigionieri era stata ventilata
in marzo in primo luogo dal sultano di Sokoto, una delle massime autorità islamiche
nella Nigeria settentrionale. In un primo momento aveva visto una certa reticenza
da parte delle autorità federali e dello stesso presidente Goodluck Jonathan, ma poi
ha visto il consenso crescente da parte di tutta una serie di altri attori della società
civile nigeriana, tra cui anche molti leader religiosi. Ha incominciato ad essere
accolta come possibile via per una soluzione. Probabilmente Goodluck Jonathan ha accettato
l’ipotesi - perché molto supportata da altri - di lavorare su un’amnistia, ma non
era la sua strategia principale.
D. - L’intervento militare però rischia di
non essere risolutivo. E non c’è il pericolo che ad un’emergenza già in corso nelle
regioni del Nord, se ne aggiunga semplicemente un’altra?
R. - Senza dubbio.
Il tentativo di un comitato “ad hoc” che lavorasse sull’amnistia evidentemente è stato
un “coup de théâtre”: le forze armate nigeriane sono le più importanti dell’area,
vedono un coinvolgimento poco diretto nelle operazioni che la comunità internazionale
ha favorito nel Mali e vogliono avere maggiore voce in capitolo. Paradossalmente la
vogliono avere inizialmente per questioni interne, ma per ricordare ai Paesi confinanti
e alla comunità internazionale che sono loro che dovrebbero fare la differenza in
altri contesti prossimi o confinanti.