Elezioni generali domani in Pakistan. Rapito il figlio dell’ex premier Gilani
Pakistan alle urne domani per le elezioni generali, in un clima di forte tensione.
Oltre 110 i morti nelle settimane di campagna elettorale, con una lunga serie di attentati,
circa 70, sferrati dai Talebani. I combattenti islamici minacciano, inoltre, attacchi
kamikaze durante le elezioni. Il servizio è di Salvatore Sabatino:
La campagna
elettorale più sanguinosa di sempre in Pakistan, per le elezioni politiche più importanti;
quelle definite da tutti un passaggio obbligato per imboccare definitivamente la strada
della democrazia. Campagna elettorale insanguinata da un’ondata di attacchi senza
precedenti - oltre 110 le vittime – causata dai Talebani. Ieri il colpo più grave:
il rapimento di Ali Haider Gilani, figlio dell'ex premier e leader del Partito del
popolo pachistano, avvenuto mentre era impegnato in un comizio; l’appuntamento è stato
interrotto dall’irruzione armata di un commando, che ha ucciso 4 persone. Ma non è
stato, questo, l’unico episodio di violenza della giornata: nella regione sud occidentale
del Baluchistan, un uomo della sicurezza, è morto in un altro attacco armato contro
un candidato politico. E già si guarda con preoccupazione a domani, quando le urne
saranno aperte. Le autorità hanno preso molto sul serio le minacce di attacchi lanciate
dai talebani, alzando tutti i livelli di sicurezza. Preoccupazione è stata espressa
pure dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon.
Ma quanto è importante
questa tornata elettorale per la tenuta del Paese a livello politico-istituzionale?
Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Massimo Campanini, docente di Storia
dell’Islam contemporaneo presso l’Università di Trento:
R. – Secondo
me, la tornata è fondamentale perché il Paese deve essere rifondato. Dai tempi di
Musharraf, in realtà il Pakistan ha attraversato una fase di estrema instabilità.
Quindi, c’è da sperare che le nuove elezioni possano dare al Paese quella stabilità
che ha perduto. Naturalmente, le premesse non sono buone perché la scia di sangue
sembra preludere a lotte e contrasti interni ancora più forti. Però, la speranza è
quella che le nuove elezioni garantiscano una nuova stabilizzazione.
D. – Secondo
lei, non si corre il rischio che le violenze mettano in secondo piano quello che è
un passaggio importantissimo per la democratizzazione del Paese?
R. – Le violenze
sono sempre in grado di mettere in difficoltà la democratizzazione, ma penso che all’interno
del Paese ci siano delle forze che stanno lavorando positivamente per uscire da una
situazione di stallo. Certamente, ci sono altri elementi della vita politica pakistana
che preferirebbero una "balcanizzazione" del Pakistan e che vedrebbero favorevolmente
una frantumazione religiosa lungo faglie etniche interne al Paese.
D. – Le
tensioni che vive questo Paese sono indissolubilmente legate anche ai rapporti complessi
con uno dei suoi vicini, l’Afghanistan, un legame da sempre pieno di criticità…
R.
– È sempre stato pieno di criticità, perché da molti anni il Pakistan ha cercato di
controllare l’Afghanistan. In realtà, l’Afghanistan ha costituito sempre una sorta
di territorio di profondità strategica per quello che potremmo chiamare “l’espansionismo
pakistano” e gli equilibri di potenza regionali che evidentemente coinvolgono anche
l’India. Per cui, è evidente che il Pakistan abbia interesse a controllare l’Afghanistan.
E dal punto di vista dei talebani – soprattutto delle forze più estremiste che operano
all’interno dell’Afghanistan – c’è il tentativo, esattamente al contrario, di mettere
in discussione il controllo pakistano sull’Afghanistan. Quindi, evidentemente i due
interessi sono contrastanti e questo dà luogo oltre alle divisioni di tipo etnico,
settario e religioso, a delle frizioni che sono molto pericolose.
D. – Insomma,
crede che il Pakistan riuscirà a trovare la strada verso quella normalizzazione che
lo accrediterebbe pienamente presso le cancellerie internazionali?
R. – La
speranza è quella, perché l’area è molto delicata e ha bisogno di stabilizzazione.
I processi democratici dovrebbero favorire potenzialmente questa stabilizzazione.
L’importante è che le divisioni e le faglie di tipo etnico e religioso non compromettano
quella che ormai sembra da molti anni – dalla caduta di Musharraf e dell’assassinio
di Benazir Bhutto – una specie di transizione infinita.