Obama: armi chimiche utilizzate contro la popolazione in Siria
“Abbiamo le prove che in Siria sono state usate armi chimiche contro la popolazione”:
così il presidente americano Obama, che invita alla prudenza ma annuncia anche un
cambio di strategia per risolvere la crisi siriana. Ieri invece l'ambasciatore siriano
presso l’Onu ha denunciato l’utilizzo sostanze chimiche da parte dei ribelli, contro
civili a nord della città di Idlib. Sul terreno intanto nuovi attentati e raid a Damasco,
con morti e feriti e le vittime dall’inizio del conflitto, superano le 70 mila. Il
servizio di Cecilia Seppia:
L’utilizzo di
armi chimiche in Siria ormai sembra essere una certezza. Ad ammetterlo, dopo Gran
Bretagna, Francia, Israele, per la prima volta anche il presidente americano Barack
Obama che si dice pronto a diverse opzioni per passare all’azione. Tra tutte, secondo
quanto scrive il Washington Post, ci sarebbe l’intenzione di armare i ribelli e dunque
sostenerli contro le forze governative, e poi una politica più aggressiva tra partner
e alleati degli Stati Uniti per arrivare alla deposizione del leader siriano Bashar
al Assad. Per ora però la via negoziale, dicono fonti della Casa Bianca, continua
ad essere la preferita. La denuncia di Obama è forte, ma il presidente ha anche invocato
prudenza e ha chiesto alle Nazioni Unite di aprire un’indagine sul caso. Una presa
di posizione ufficiale arriva anche dalle milizie sciite libanesi: non permetteremo
che il regime di Assad cada in mano degli Stati Uniti o di Israele, fa sapere Nasrallah,
leader di Hezbollah e principale alleato con l’Iran di Damasco. Intanto ieri un altro
attentato ha scosso la capitale: un’esplosione avvenuta a due passi dalla Città vecchia,
ha provocato almeno 13 morti e 60 feriti. Altre 8 persone sarebbero morte in un raid
dell’aviazione siriana su un campo profughi, vicino al confine con la Turchia.
Sul
versante dioplomatico, mentre la comunità internazionale si domanda se Assad stia
usando armi chimiche contro i ribelli e la Francia invoca la verifica dell’Onu, Stati
Uniti e Russia fanno sapere di voler lavorare per una soluzione della crisi. Fausta
Speranza ha chiesto ad Alessandro Colombo, docente di Relazioni internazionali
all’Università di Milano, quale margine ci possa essere di azione congiunta tra Mosca
e Washington:
R. – E’ molto
difficile dirlo, perché è chiaro che gli obiettivi della Russia e degli Stati Uniti
non sono convergenti. C’è un solo obiettivo comune – e credo che su questo Obama e
Putin cercheranno di collaborare – che è la preoccupazione, condivisa dalla Russia
e dagli Stati Uniti, da un lato per l’estensione dell’instabilità attorno alla Siria,
dall’altro lato per il continuo rafforzamento della componente "jihadista" nell’insurrezione.
Questo è l’elemento che preoccupa nella stessa misura gli uni e gli altri.
D.
– Sulle preoccupazioni tutti d’accordo, ma sul da fare penso che sia molto difficile
avere una linea. Abbiamo visto la spaccatura che è emersa all’interno del consesso
Onu...
R. – Sul da fare non credo che ci siano grandi margini di accordo in
questo momento, perché la posizione della Russia a suo modo è una posizione chiara.
La Russia conta sulla perpetuazione dell’attuale regime politico in Siria, magari
con una transizione interna. Questa potrebbe essere una soluzione. Il problema maggiore
ce l’hanno gli Stati Uniti: sono gli Stati Uniti che in questo momento non hanno una
politica chiara sulla Siria, perché da un lato vorrebbero l’abbattimento del regime
di Assad, ma dall’altro lato non vogliono coloro che, con ogni probabilità, succederebbero
ad Assad. Quindi, la posizione degli Stati Uniti in questo momento è una posizione
di impasse totale, che si legge nel dibattito politico e anche nel dibattito
intellettuale negli Stati Uniti sulla questione siriana. E’ molto difficile trovare
una posizione comune, che non sia una sorta di "foglia di fico" su una sorta di transizione
interna al regime. Ma in questo momento la transizione interna al regime è una soluzione
che l’opposizione siriana non potrebbe neanche lontanamente immaginare come praticabile
e meno che mai le sue componenti più radicali. Quindi, la situazione mi sembra, da
un punto di vista diplomatico, pressoché disperata.
D. – Abbiamo parlato della
possibile intesa Cremlino-Washington. Vogliamo dire che su questa congiuntura pesa
l’Iran?
R. – Sì, naturalmente, l’Iran è l’altro elemento dell’equazione, è
chiaro. La Federazione russa, tra l’altro, ha la posizione che ha sulla Siria anche
per conservare buoni rapporti con l’Iran. Va detto – se si può aprire una parentesi
– che il conflitto siriano è anche la prova definitiva di quello che in realtà si
sapeva già, e cioè che non esiste un fronte comune dell’islam radicale. In Siria,
si stanno combattendo da un lato jihadisti, più o meno legati ad Al Qaeda, con l’Iran
e gli hezbollah dall’altra parte. Quindi, questa è una cosa che dovrebbe servire anche
all’informazione – e perché no, al mondo politico – per proporre delle analisi un
po’ meno rozze del rapporto tra Occidente e islam radicale.
D. – La questione
delle armi chimiche ovviamente è uno spettro che sta un po’ sullo sfondo di tutto,
ma c’è la sensazione che potrebbero essere usate come grimaldello per uscire dallo
stallo...
R. – Gli Stati Uniti sono molto prudenti. In realtà, gli Stati Uniti
continuano a frenare sull'ipotesi dell’uso di armi chimiche da parte delle truppe
di Assad, facendo notare quello che in realtà è perfettamente ragionevole dal punto
di vista militare e strategico, cioè che in una condizione come questa un uso anche
confermato ma saltuario delle armi chimiche potrebbe non significare un ordine da
parte del regime, ma un’iniziativa indipendente di qualche pezzo del personale. Ci
si trova in una situazione nella quale è presumibile che la catena di comando sia
totalmente saltata sia per i regolari che per gli irregolari. Quello che conta allora
è come venga interpretato dai diversi attori questo uso saltuario, semmai avvenuto,
di armi chimiche. Gli Stati Uniti, in questo momento, sono tra tutti i principali
attori quelli che accentuano di più il carattere di prudenza e dicono: “Stiamo attenti,
non precipitiamo, non arriviamo subito alle estreme conseguenze”, perché chiaramente
sono il Paese che in questo momento è più preoccupato da un possibile coinvolgimento
diretto in operazioni militari. Gli Stati Uniti non vogliono assumersi un altro compito
paragonabile a quello che si sono assunti – con cattivi risultati, oltretutto – sia
in Iraq sia in Afghanistan.