2013-05-01 12:30:18

Obama: armi chimiche utilizzate contro la popolazione in Siria


“Abbiamo le prove che in Siria sono state usate armi chimiche contro la popolazione”: così il presidente americano Obama, che invita alla prudenza ma annuncia anche un cambio di strategia per risolvere la crisi siriana. Ieri invece l'ambasciatore siriano presso l’Onu ha denunciato l’utilizzo sostanze chimiche da parte dei ribelli, contro civili a nord della città di Idlib. Sul terreno intanto nuovi attentati e raid a Damasco, con morti e feriti e le vittime dall’inizio del conflitto, superano le 70 mila. Il servizio di Cecilia Seppia:RealAudioMP3

L’utilizzo di armi chimiche in Siria ormai sembra essere una certezza. Ad ammetterlo, dopo Gran Bretagna, Francia, Israele, per la prima volta anche il presidente americano Barack Obama che si dice pronto a diverse opzioni per passare all’azione. Tra tutte, secondo quanto scrive il Washington Post, ci sarebbe l’intenzione di armare i ribelli e dunque sostenerli contro le forze governative, e poi una politica più aggressiva tra partner e alleati degli Stati Uniti per arrivare alla deposizione del leader siriano Bashar al Assad. Per ora però la via negoziale, dicono fonti della Casa Bianca, continua ad essere la preferita. La denuncia di Obama è forte, ma il presidente ha anche invocato prudenza e ha chiesto alle Nazioni Unite di aprire un’indagine sul caso. Una presa di posizione ufficiale arriva anche dalle milizie sciite libanesi: non permetteremo che il regime di Assad cada in mano degli Stati Uniti o di Israele, fa sapere Nasrallah, leader di Hezbollah e principale alleato con l’Iran di Damasco. Intanto ieri un altro attentato ha scosso la capitale: un’esplosione avvenuta a due passi dalla Città vecchia, ha provocato almeno 13 morti e 60 feriti. Altre 8 persone sarebbero morte in un raid dell’aviazione siriana su un campo profughi, vicino al confine con la Turchia.

Sul versante dioplomatico, mentre la comunità internazionale si domanda se Assad stia usando armi chimiche contro i ribelli e la Francia invoca la verifica dell’Onu, Stati Uniti e Russia fanno sapere di voler lavorare per una soluzione della crisi. Fausta Speranza ha chiesto ad Alessandro Colombo, docente di Relazioni internazionali all’Università di Milano, quale margine ci possa essere di azione congiunta tra Mosca e Washington:RealAudioMP3

R. – E’ molto difficile dirlo, perché è chiaro che gli obiettivi della Russia e degli Stati Uniti non sono convergenti. C’è un solo obiettivo comune – e credo che su questo Obama e Putin cercheranno di collaborare – che è la preoccupazione, condivisa dalla Russia e dagli Stati Uniti, da un lato per l’estensione dell’instabilità attorno alla Siria, dall’altro lato per il continuo rafforzamento della componente "jihadista" nell’insurrezione. Questo è l’elemento che preoccupa nella stessa misura gli uni e gli altri.

D. – Sulle preoccupazioni tutti d’accordo, ma sul da fare penso che sia molto difficile avere una linea. Abbiamo visto la spaccatura che è emersa all’interno del consesso Onu...

R. – Sul da fare non credo che ci siano grandi margini di accordo in questo momento, perché la posizione della Russia a suo modo è una posizione chiara. La Russia conta sulla perpetuazione dell’attuale regime politico in Siria, magari con una transizione interna. Questa potrebbe essere una soluzione. Il problema maggiore ce l’hanno gli Stati Uniti: sono gli Stati Uniti che in questo momento non hanno una politica chiara sulla Siria, perché da un lato vorrebbero l’abbattimento del regime di Assad, ma dall’altro lato non vogliono coloro che, con ogni probabilità, succederebbero ad Assad. Quindi, la posizione degli Stati Uniti in questo momento è una posizione di impasse totale, che si legge nel dibattito politico e anche nel dibattito intellettuale negli Stati Uniti sulla questione siriana. E’ molto difficile trovare una posizione comune, che non sia una sorta di "foglia di fico" su una sorta di transizione interna al regime. Ma in questo momento la transizione interna al regime è una soluzione che l’opposizione siriana non potrebbe neanche lontanamente immaginare come praticabile e meno che mai le sue componenti più radicali. Quindi, la situazione mi sembra, da un punto di vista diplomatico, pressoché disperata.

D. – Abbiamo parlato della possibile intesa Cremlino-Washington. Vogliamo dire che su questa congiuntura pesa l’Iran?

R. – Sì, naturalmente, l’Iran è l’altro elemento dell’equazione, è chiaro. La Federazione russa, tra l’altro, ha la posizione che ha sulla Siria anche per conservare buoni rapporti con l’Iran. Va detto – se si può aprire una parentesi – che il conflitto siriano è anche la prova definitiva di quello che in realtà si sapeva già, e cioè che non esiste un fronte comune dell’islam radicale. In Siria, si stanno combattendo da un lato jihadisti, più o meno legati ad Al Qaeda, con l’Iran e gli hezbollah dall’altra parte. Quindi, questa è una cosa che dovrebbe servire anche all’informazione – e perché no, al mondo politico – per proporre delle analisi un po’ meno rozze del rapporto tra Occidente e islam radicale.

D. – La questione delle armi chimiche ovviamente è uno spettro che sta un po’ sullo sfondo di tutto, ma c’è la sensazione che potrebbero essere usate come grimaldello per uscire dallo stallo...

R. – Gli Stati Uniti sono molto prudenti. In realtà, gli Stati Uniti continuano a frenare sull'ipotesi dell’uso di armi chimiche da parte delle truppe di Assad, facendo notare quello che in realtà è perfettamente ragionevole dal punto di vista militare e strategico, cioè che in una condizione come questa un uso anche confermato ma saltuario delle armi chimiche potrebbe non significare un ordine da parte del regime, ma un’iniziativa indipendente di qualche pezzo del personale. Ci si trova in una situazione nella quale è presumibile che la catena di comando sia totalmente saltata sia per i regolari che per gli irregolari. Quello che conta allora è come venga interpretato dai diversi attori questo uso saltuario, semmai avvenuto, di armi chimiche. Gli Stati Uniti, in questo momento, sono tra tutti i principali attori quelli che accentuano di più il carattere di prudenza e dicono: “Stiamo attenti, non precipitiamo, non arriviamo subito alle estreme conseguenze”, perché chiaramente sono il Paese che in questo momento è più preoccupato da un possibile coinvolgimento diretto in operazioni militari. Gli Stati Uniti non vogliono assumersi un altro compito paragonabile a quello che si sono assunti – con cattivi risultati, oltretutto – sia in Iraq sia in Afghanistan.







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