La triste condizione del lavoro coatto. Scontri in Bangladesh dopo il crollo di Dacca
Nel palazzo crollato a Dacca, in Bangladesh, erano ospitate cinque fabbriche tessili.
Gli operai sarebbero stati costretti dai propri datori di lavoro a rientrare nell’edificio,
nonostante fossero comparse enormi crepe sui muri. Otto le persone arrestate, mentre
migliaia di operai sono scesi in piazza in tutto il Paese per chiedere maggiori diritti
e sicurezza. Intanto, si continua a scavare tra le macerie alla ricerca dei corpi
delle decine di lavoratori che ancora oggi risultano dispersi. Sono oltre 2.300 le
persone estratte vive, tra loro una donna che nel frattempo ha partorito un bambino.
Questa tragedia riporta in primo piano la triste condizione di milioni di persone
che lavorano in regime di sfruttamento e senza garanzie di sicurezza. Molto spesso,
sono vittime delle multinazionali che investono nei Paesi in via di sviluppo per abbassare
i costi di produzione, a fronte di un aumento esponenziale dei ricavi. Salvatore
Sabatino ne ha parlato con l’economista Tito Boeri:
R. – Io credo
che una tragedia come quella di Dacca sia soprattutto legata all’incapacità dei governi
nazionali di rispettare le regole di base, di far applicare gli standard minimi fissati
dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Il problema è che in Bangladesh noi
abbiamo il parlamento nazionale e lo stesso governo che detengono quote importanti
di queste aziende e quindi hanno tutti gli interessi ad aumentare i profitti di tali
aziende e a chiudere un occhio sui controlli, che invece dovrebbero essere attuati.
D. – Ovviamente, questo non è un problema che riguarda solo il Bangladesh.
Secondo l’Onu, sarebbero circa 20 milioni le vittime del lavoro coatto e si concentrano
soprattutto in Asia. Questo fenomeno come può essere definito?
R. – E’ un problema,
in effetti, molto serio, molto importante, soprattutto nel campo del tessile, perché
ci sono condizioni di lavoro davvero disumane. Sono purtroppo eventi che richiedono
davvero, credo, un’attenzione molto più forte da parte delle organizzazioni multilaterali,
nel far sì che gli standard di lavoro vengano rispettati nei diversi Paesi. Soprattutto,
bisogna impedire che ci sia questo legame così stretto tra le elite nazionali
e queste industrie.
D. – Quanto tutta questa delocalizzazione ha influito sulla
crisi economica, che "morde" invece di più i Paesi sviluppati?
R. – Certamente,
la delocalizzazione ha creato un problema per i lavoratori poco qualificati nei Paesi
più avanzati, perché le lavorazioni a minore contenuto di capitale umano si sono trasferite
nei Paesi in via di sviluppo, dove ci sono costi del lavoro più bassi e, come purtroppo
vediamo, anche condizioni di lavoro disumane. Quelli che prima avevano un lavoro nei
Paesi avanzati, in queste aziende, nel tessile, hanno sofferto davvero molto duramente.
La risposta in questo caso non può che essere quella sul puntare su investimenti in
capitale umano e cercare di far sì che queste persone abbiano maggiore possibilità
di riconvertirsi, di apprendere mansioni che siano a maggiore contenuto di capitale
umano. Perché è questo il vantaggio che avranno in futuro, in ogni caso, i Paesi avanzati.
D.
– Guardando però al mercato del lavoro, in senso globale, c’è piuttosto una corsa
al ribasso. Non sono i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo che si adeguano a quelle
che sono le garanzie che vengono date nei Paesi già sviluppati, ma è il contrario...
R.
– In realtà, la situazione è più complessa, perché ci sono, per esempio, anche proteste
dei lavoratori nei Paesi emergenti, quelli che si stanno arricchendo, e ci sono anche
delle forme di organizzazione dei lavoratori. Anche in Cina ci sono stati scioperi
molto importanti e i lavoratori sono riusciti a portare a casa condizioni lavorative
migliori e incrementi salariali significativi. Non si va, quindi, solo in una direzione.
Certamente, c’è il problema che la penetrazione nei mercati avanzati di importazione
dai Paesi in via di sviluppo ha aumentato le pressioni competitive. Soprattutto in
Paesi come l’Italia, dove non ci sono minimi che vengano fissati dai sindacati, significa
avere persone, soprattutto lavoratori immigrati, lavoratori molto vulnerabili, giovani,
che finiscono per essere in condizioni lavorative molto, molto pesanti.