2013-04-27 15:16:38

La triste condizione del lavoro coatto. Scontri in Bangladesh dopo il crollo di Dacca


Nel palazzo crollato a Dacca, in Bangladesh, erano ospitate cinque fabbriche tessili. Gli operai sarebbero stati costretti dai propri datori di lavoro a rientrare nell’edificio, nonostante fossero comparse enormi crepe sui muri. Otto le persone arrestate, mentre migliaia di operai sono scesi in piazza in tutto il Paese per chiedere maggiori diritti e sicurezza. Intanto, si continua a scavare tra le macerie alla ricerca dei corpi delle decine di lavoratori che ancora oggi risultano dispersi. Sono oltre 2.300 le persone estratte vive, tra loro una donna che nel frattempo ha partorito un bambino. Questa tragedia riporta in primo piano la triste condizione di milioni di persone che lavorano in regime di sfruttamento e senza garanzie di sicurezza. Molto spesso, sono vittime delle multinazionali che investono nei Paesi in via di sviluppo per abbassare i costi di produzione, a fronte di un aumento esponenziale dei ricavi. Salvatore Sabatino ne ha parlato con l’economista Tito Boeri:RealAudioMP3

R. – Io credo che una tragedia come quella di Dacca sia soprattutto legata all’incapacità dei governi nazionali di rispettare le regole di base, di far applicare gli standard minimi fissati dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Il problema è che in Bangladesh noi abbiamo il parlamento nazionale e lo stesso governo che detengono quote importanti di queste aziende e quindi hanno tutti gli interessi ad aumentare i profitti di tali aziende e a chiudere un occhio sui controlli, che invece dovrebbero essere attuati.

D. – Ovviamente, questo non è un problema che riguarda solo il Bangladesh. Secondo l’Onu, sarebbero circa 20 milioni le vittime del lavoro coatto e si concentrano soprattutto in Asia. Questo fenomeno come può essere definito?

R. – E’ un problema, in effetti, molto serio, molto importante, soprattutto nel campo del tessile, perché ci sono condizioni di lavoro davvero disumane. Sono purtroppo eventi che richiedono davvero, credo, un’attenzione molto più forte da parte delle organizzazioni multilaterali, nel far sì che gli standard di lavoro vengano rispettati nei diversi Paesi. Soprattutto, bisogna impedire che ci sia questo legame così stretto tra le elite nazionali e queste industrie.

D. – Quanto tutta questa delocalizzazione ha influito sulla crisi economica, che "morde" invece di più i Paesi sviluppati?

R. – Certamente, la delocalizzazione ha creato un problema per i lavoratori poco qualificati nei Paesi più avanzati, perché le lavorazioni a minore contenuto di capitale umano si sono trasferite nei Paesi in via di sviluppo, dove ci sono costi del lavoro più bassi e, come purtroppo vediamo, anche condizioni di lavoro disumane. Quelli che prima avevano un lavoro nei Paesi avanzati, in queste aziende, nel tessile, hanno sofferto davvero molto duramente. La risposta in questo caso non può che essere quella sul puntare su investimenti in capitale umano e cercare di far sì che queste persone abbiano maggiore possibilità di riconvertirsi, di apprendere mansioni che siano a maggiore contenuto di capitale umano. Perché è questo il vantaggio che avranno in futuro, in ogni caso, i Paesi avanzati.

D. – Guardando però al mercato del lavoro, in senso globale, c’è piuttosto una corsa al ribasso. Non sono i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo che si adeguano a quelle che sono le garanzie che vengono date nei Paesi già sviluppati, ma è il contrario...

R. – In realtà, la situazione è più complessa, perché ci sono, per esempio, anche proteste dei lavoratori nei Paesi emergenti, quelli che si stanno arricchendo, e ci sono anche delle forme di organizzazione dei lavoratori. Anche in Cina ci sono stati scioperi molto importanti e i lavoratori sono riusciti a portare a casa condizioni lavorative migliori e incrementi salariali significativi. Non si va, quindi, solo in una direzione. Certamente, c’è il problema che la penetrazione nei mercati avanzati di importazione dai Paesi in via di sviluppo ha aumentato le pressioni competitive. Soprattutto in Paesi come l’Italia, dove non ci sono minimi che vengano fissati dai sindacati, significa avere persone, soprattutto lavoratori immigrati, lavoratori molto vulnerabili, giovani, che finiscono per essere in condizioni lavorative molto, molto pesanti.







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