Iraq: la strage a Kirkuk. Bilancio negativo dall'uscita degli Usa
Iraq di nuovo in primo piano per le violenze scoppiate ieri mattina in una piazza
di Hawija, a ovest di Kirkuk, nel nord del Paese, dove le forze di sicurezza hanno
attaccato un gruppo di manifestanti dell’opposizione sunnita, che accusa il primo
ministro sciita, al Maliki, di attuare una politica discriminatoria. L’assalto era
programmato per arrestare i responsabili dell’uccisione, due giorni fa, di alcuni
soldati. Almeno 27 i morti e decine i feriti. Roberta Gisotti ha intervistato
Margherita Paolini, coordinatrice scientifica della rivista di geopolitica
"Limes":
I manifestanti sunniti
erano asserragliati nella cittadina da metà gennaio, in vista delle elezioni che sabato
scorso hanno chiamato al voto oltre 13 milioni di iracheni per rinnovare 12 Consigli
provinciali su 18, primo test elettorale dal ritiro degli Stati Uniti. E mentre si
aspetta l’esito delle urne, proseguono le proteste in diverse località e non cala
la tensione. Ben 14 i candidati uccisi dall’inizio dell’anno. Ma quali scenari si
profilano dallo spoglio delle schede? Margherita Paolini:
R. – Quello che io
vedo è che, dal momento in cui sono partiti gli americani nel dicembre 2011, le cose
sono andate abbastanza male. Noi abbiamo tre elementi di tensione che giocano sul
presente e sul futuro a breve termine. Abbiamo la situazione curda, a nord, che ormai
si è definita come un’autonomia che di fatto equivale ad un’indipendenza, che è soprattutto
importante non solo sul piano amministrativo, ma per il fatto che gestisce con massima
autonomia le risorse petrolifere e gasifere. E poi le preoccupazioni delle popolazioni
sunnite dell’area di Kirkuk che hanno due motivi di fondo: uno, quello più generale,
di sentirsi emarginati e tagliati fuori dai processi economici e produttivi legati
soprattutto alle risorse petrolifere e gasifere. E l’altro è quello che temono che
piano piano la zona di Kirkuk, che è quella in cui si trovano e quella più consistente
già in sviluppo, finisca poi per essere 'sifonata' dal Kurdistan. Per cui, il malumore
viene espresso dal proliferare di attentati anche contro luoghi sacri sciiti. C’è
inoltre anche il fatto che la stessa etnia sciita non è compatta, perché anche qui,
a causa delle risorse petrolifere e gasifere, abbiamo il fenomeno della provincia
di Bassora e di Muktad al-Sadr, il quale comunque coltiva anche 'tentazioni' autonomiste
in un ambito federativo. Quello che è interessante è vedere che Muktad al-Sadr – da
elemento che sembrava un po’ sovversivo, legato all’Iran – si stia presentando come
un elemento più moderato che però vuole far fuori al Maliki come un accentratore,
mentre lui, Muktad al-Sadr, vorrebbe presentarsi come un possibile presidente federale.
Su tutto questo quadro, che è già complicato, c’è la situazione di crescente minaccia
invasiva di al Qaeda Iraq che sono poi quelli che fanno un certo tipo di attentati.
Penso che in questo attacco a Kirkuk le truppe governative cercassero anche elementi
qaedisti, che fossero andati a rifugiarsi là, nella zona dove c’era quel raduno, perché
ci sono stati attentati in queste zone e anche a Baghdad. E, la tipologia di questi
attentati riporta gli schemi operativi qaedisti.
D. – Un test elettorale anche
per tracciare o confermare un bilancio complesso degli effetti dell’intervento armato
internazionale in questo Paese…
R. – Io ho sempre una grande fiducia nelle
capacità di recupero degli iracheni, che sono sempre stati un grande popolo: hanno
anche dei leader locali bravi. Però, le ipoteche che pesano su questo Paese, che sono
rimaste sono molto, molto pesanti. Non si sta facendo praticamente nulla per aiutarli:
questo è il punto. Si prende, si va via e poi ci si occupa delle risorse gasifere
e petrolifere: questo è tutto l’interesse che ha il mondo occidentale. Mi sembra –
posso dirlo? – scandaloso.