Padre Neuhauss: israeliani e palestinesi ascoltino l'invito di pace del Papa per la
Terra Santa
La Chiesa di Gerusalemme, con le sua aspettative e le sue difficoltà, è stata lunedì
al centro dell’attenzione di Papa Francesco, che ha ricevuto in udienza il Patriarcato
latino della Città santa, intrattenendosi a colloquio con il patriarca Fouad Twal.
Tra i presenti, vi era anche il gesuita, padre David Neuhauss, vicario patriarcale
per i cattolici di espressione ebraica. Alessandro De Carolis gli ha chiesto
un’impressione sull’incontro con Papa Francesco:
R. – Il Patriarca
ha sottolineato il fatto che il Papa è un uomo di ascolto e ha notato anche che il
Papa sa molto del Medio Oriente: è molto, molto informato della nostra situazione.
Noi abbiamo sempre la speranza che il Papa, con la sua voce e la sua autorità morale,
possa dare il suo contributo al dialogo tra le diverse parti.
D. – Lei, in
particolare, si occupa dei cattolici di provenienza ebraica e di quelli integrati
nella società, che parla la lingua ebraica...
R. – E’ una piccola minoranza
quella di provenienza ebraica; tantissimi altri sono parenti di ebrei, operai stranieri,
che cercano asilo in Israele. C’è anche il fenomeno, non molto conosciuto, ma che
pure esiste, dei bambini arabi, palestinesi arabi, formati ed educati nelle scuole
ebraiche, che conoscono quasi unicamente l’ebraico. Il nostro vicariato, quindi, che
è a lavoro con queste popolazioni, ha una comunità di fedeli molto diversificata.
D.
– Che tipo di esperienza umana e spirituale vivete con queste persone?
R. –
La prima cosa è provare a fare la trasmissione di fede. I genitori, molto spesso,
conoscono bene la fede e hanno vissuto la fede in una comunità cristiana. Il nostro
lavoro principale è fare Chiesa con questi bambini, nella lingua che loro capiscono
meglio: la lingua ebraica. Noi dobbiamo trovare il modo per proclamare chiaramente,
con autenticità, la nostra fede in lingua ebraica. Questo vuol dire anche vivere un
profondo dialogo con gli ebrei, con la tradizione ebraica. Siamo chiamati anche a
vivere in unità profonda con i fedeli di lingua ebraica e di lingua araba. Quando
mi sono presentato al Papa ho detto ieri: “Non sono solo gesuita fra i diocesani,
ma sono anche ebreo fra gli arabi”.
D. – C’è un dato preoccupante, recentemente
ribadito dal Centro islamo-cristiano, che riguarda il calo inarrestabile dei cristiani,
che ormai sono ridotti nei territori palestinesi intorno all’1 per cento. Il Patriarcato
come affronta questa situazione?
R. – Questa è sempre una grande preoccupazione
del Patriarcato. Dobbiamo sottolineare che questo non avviene solo per la migrazione,
per cui i migliori di noi lasciano il Paese e cercano un futuro migliore per i loro
bambini altrove, ma c’è anche un’altra causa molto, molto importante: le nostre famiglie
sono molto più piccole di quelle musulmane ed ebraiche; siamo la parte della popolazione
che ha una formazione migliore e scegliamo di non fare troppi bambini. Quindi, non
credo che noi ci si debba focalizzare troppo sulle statistiche. Le statistiche sono
importantissime, non c’è dubbio, ma credo che dobbiamo essere molto consapevoli che
la nostra vocazione è quella di essere un piccolo gruppo, una piccola Chiesa, fatta
per la grande maggioranza.
D. – Di recente vi siete espressi contro la decisione
di Hamas di vietare le classi miste. Qual è la posizione della vostra Chiesa in merito?
R.
– Noi siamo preoccupati anche per questo. Non vogliamo questa segregazione, specialmente
nelle scuole cattoliche e questo tocca la situazione a Gaza. Noi vogliamo che i nostri
bambini ricevano un’educazione secondo lo spirito della Chiesa. Devo dire, però, che
esiste un dialogo con le autorità di Hamas: i capi di Hamas riconoscono il valore
della scuola cattolica a Gaza e anche fra i capi ci sono quelli che mandano lì i loro
bambini. Noi, quindi, abbiamo sempre la speranza del dialogo e siamo sempre ottimisti.
Siamo chiamati, infatti, ad essere ottimisti ed una comunità di speranza.
D.
– La situazione mediorientale è stata evocata all’Urbi et Orbi di Papa Francesco la
mattina di Pasqua, con un appello a ritrovare – ha detto – la concordia, che da troppo
tempo manca tra israeliani e palestinesi. Qual è il suo auspicio?
R. – Che
la voce del Papa sia ascoltata. Sono convinto che i due popoli siano convinti che
sia arrivato il tempo. Il discorso, però, non è un discorso di pace. Noi, dunque,
dobbiamo pregare che i nostri capi politici comincino un discorso di pace e di giustizia.
Tutti parlano solo della vittoria, ma qui dobbiamo trovare il modo di parlare con
rispetto e comprensione verso l’altro, per arrivare a quello che il Papa vuole e che
noi tutti vogliamo.