La testimonianza di Susan Dabbous dopo il rientro dalla Siria: non è più una guerra
civile
Sono rientrati sabato sera a Roma e stanno bene i 4 giornalisti italiani, un reporter
Rai e 3 freelance, liberati in Turchia. Erano stati trattenuti dal 5 aprile nel nord
della Siria. Si tratta dell'inviato Rai Amedeo Ricucci, il fotoreporter Elio Colavolpe,
il documentarista Andrea Vignali e la giornalista freelance Susan Dabbous, di origini
siriane. ''Eravamo in mano a un gruppo islamista armato che non fa parte dell'Esercito
libero siriano'', ha raccontato Ricucci all’Ansa, spiegando che ''è stato un malinteso
… ci trovavamo in una località originariamente cristiana e stavamo filmando una chiesa.
Ma i miliziani hanno creduto che stessimo riprendendo una loro base logistica''. Susan
Dabbous ha raccontato al Telegraph i suoi timori: ''Minacciavano di tagliarmi le mani
perché pensavano che avrei scritto un articolo su di loro. Temevo che mi avrebbero
ucciso, ho avuto veramente molta paura'', e ha aggiunto che tra i sequestratori c'erano
algerini e marocchini. Ascoltiamo la testimonianza di Susan Dabbous, al microfono
di Eugenio Bonanata:
R. – Sono stati
nove giorni in cui abbiamo vissuto una forte altalena emotiva. Siamo stati fermati
e nei primi momenti sì, il clima era molto pesante, molto brutto, però allo stesso
tempo sembrava che dovessero rilasciarci da un momento all’altro. Quindi, da un punto
di vista psicologico, era stato quasi più semplice all’inizio, nonostante le condizioni
di detenzione fossero più difficili. Poi ho chiesto di insegnarmi a pregare. E sono
stata io a chiederlo, questo è importante da precisare, perché ho visto che da qualche
notizia stampa è emerso che mi avrebbero obbligato a pregare. No: sono stata io a
chiederlo, perché se mi avessero trattenuta per mesi, come temevo, e sarei dovuta
rimanere lì, io volevo integrarmi. C’era un’unica donna, in questo villaggio e sono
stata portata a casa sua, lei era la moglie di uno dei combattenti. E con lei ho affrontato
i giorni più “leggeri” di detenzione, perché ero dentro una casa, e non più dentro
un contesto più simile ad una prigione. Paradossalmente, però, è stato anche il momento
in cui sono stata peggio, perché stavo bene e avrei voluto comunicarlo: quindi, era
il momento in cui è iniziata l’ansia per non essere riuscita a mettermi in contatto
con la famiglia.
D. – Quale è stato il momento più brutto?
R. – Il momento
più brutto è stato capire che il mio destino era decisamente separato da quello dei
colleghi, perché loro erano tre, maschi, italiani, e io ero una, donna, italo-siriana.
Quindi avevo dei punti estremamente critici che hanno destato in loro sospetti molto
forti, infatti pensavano che fossi una spia.
D. – Comunque, in generale sei
stata trattata bene …
R. – Fisicamente sì. Non sono mai stata toccata, anzi:
quella era una delle cose che mi tranquillizzava di più. Avevano un codice ferreo
e per questo non mi sono mai preoccupata per la mia incolumità fisica. Allo stesso
tempo, sul piano psicologico è stato veramente molto, molto dura: c’erano degli scogli
culturali insormontabili per cui io ero per molti aspetti una figura per loro inaccettabile.
D.
– Sconsigli ai giornalisti di recarsi in Siria?
R. – Questa è una bella domanda!
Ieri, a caldo, ho detto che sicuramente sconsiglio ai freelance di entrare in Siria
in questo momento. Io lo faccio da due anni e ho visto la differenza: in questo momento
direi proprio di no, al di là dell’esperienza appena vissuta. Cosa dire? Certo, quando
si spengono i riflettori su un conflitto è il momento in cui succedono le cose peggiori.
Però, è pure vero che c’è da chiedersi che cosa può succedere di peggio, in Siria,
rispetto a quello che è accaduto negli ultimi due anni?
D. – Comunque, i giornalisti
non sono ben visti in Siria…
R. – Sì: nel senso che ormai sia per chi combatte
sia per la popolazione civile, dopo due anni è arrivato un momento di stanchezza molto
forte. Quindi, non so se esiste un ciclo in tutto questo, per cui adesso c’è un momento
di stanchezza e poi, dopo, ci sarà di nuovo un momento diverso. Potrebbe durare ancora
a lungo questa guerra civile, che forse non è più neanche una guerra civile, perché
sono tanti gli stranieri che vengono a combattere contro Assad … E’ una guerra molto
aperta e ormai molto difficile da interpretare. Non so veramente che tipo di pronostico
fare. Posso parlare per gli ultimi due anni: gli ultimi due anni sono andati così.
All’inizio eravamo accolti, trattati benissimo, non ci chiedevano soldi; poi c’è stata
una fase in cui hanno iniziato a chiederci i soldi per passare il confine, per “proteggerci”,
e adesso eravamo entrati in una fase in cui i giornalisti per muoversi dentro la Siria
avevano bisogno di uomini armati al seguito, cosa che fino a pochi mesi fa non serviva.
D’ora in poi, se i giornalisti vogliono entrare in Siria devono avere non uomini armati
al seguito, ma devono avere un’intera brigata, praticamente embedded, però all’interno
di un gruppo del Free Syrian Army. Questa è l’unica cosa che posso consigliare.
D.
– Tu pensi di tornare in Siria per lavoro?
R. – Questa è una domanda un po’
difficile. E’ ovvio che vorrei tornare in Siria a prescindere dal lavoro, perché è
un Paese meraviglioso a cui sono personalmente e affettivamente legata. Non si scherza
con il fuoco: siamo andati molto, molto vicino a qualcosa di terribile. Questo lo
abbiamo constatato con i nostri occhi. Cioè, è incosciente prendere alla leggera certe
cose. Se dovessi tornarci, forse non sarebbe per lavoro.
D. – E adesso, libertà
…
R. – Adesso libertà, riposo, famiglia, affetti … La straordinarietà di un
momento del genere è che paradossalmente ti apre gli occhi su quante persone ti vogliono
bene e su quanto la vita invece possa essere semplice quando hai le cose basilari:
la salute, la fede e le persone che ti amano …