Kurdistan, mons. Warda: Europa non dimentichi i cristiani del Medio Oriente
A dieci anni dalla caduta del regime di Saddam Hussein, il Kurdistan, nel nord iracheno,
vive una situazione di relativa calma, lontana dalla violenza che agita ancora Baghdad
e le altre città. E’ a Erbil, capitale ma anche provincia del Kurdistan, che si trova
la comunità cristiana più grande dell’intero Paese, in tutto 6.000 famiglie. Nelle
altre due province, quella di Sulaimaniya e quella di Dohuk, in totale se ne trovano
circa 4.500. La maggior parte di loro si è insediata in Kurdistan negli ultimi anni,
in fuga dal conflitto tutt’ora in corso in Iraq. Nonostante si viva con maggiore sicurezza,
però, anche i cristiani del Kurdistan lasciano le loro case. Lo conferma l’arcivescovo
caldeo di Erbil, mons. BasharWarda, intervistato da FrancescaSabatinelli:
R. - The problem
is that always… Il problema in Iraq dipende dall’instabilità politica, che pregiudica
la vita quotidiana non solo dei cristiani, ma di tutti gli iracheni. Le persone soffrono
per tutto questo, ovviamente, in quanto minoranza gli effetti negativi sono più visibili
sui cristiani. Non c’è la percezione della sicurezza, questo è ciò che vive ogni cristiano,
la maggior parte delle famiglie sono dovute emigrare tre volte negli ultimi 40 anni.
Certo, la situazione in Kurdistan è migliore, non c’è paragone con il resto dell’Iraq.
Qui, si vive con la sensazione di essere in sicurezza, in una comunità come Ankawa
(quartiere cristiano di Erbil - N.d.R.), che è a maggioranza cristiana, con cinquemila
famiglie ci si sente a proprio agio. Si può viaggiare, si può andare nel resto del
Kurdistan ogni volta che si vuole. In ogni caso, però, questo grande conflitto politico
contamina tutti gli iracheni. E se parliamo dei cristiani, in quanto minoranza vengono
colpiti più degli altri.
D. - Qui, in Kurdistan, come vivono i cristiani? C’è
discriminazione ad esempio sotto il profilo lavorativo?
R. - There is no discrimination
in that sense… Non voglio parlare di discriminazione contro i cristiani. La mancanza
di lavoro dipende anche dal fatto che, arrivati qui perché fuggiti dall’Iraq, non
parlano il curdo, ecco perché noi come Chiesa abbiamo cercato di sostenerli aprendo
corsi di lingua curda. La situazione è diversa per coloro che sono più qualificati,
che hanno una laurea: il governo regionale del Kurdistan cerca di incentivarli, di
non farli partire.
D. - Sappiamo che molti cristiani iracheni sono arrivati
in Kurdistan negli ultimi anni, in molti però ora lo stanno lasciando, proprio a causa
delle difficoltà di cui parla lei…
R. - Kurdistan is in the heart of Middle
East… Il Kurdistan è nel cuore del Medio Oriente e sappiamo che si tratta di una
zona instabile. Confiniamo con la Siria, con tutta la sua violenza. I cristiani avvertono
che l’area non è in sicurezza, non c’è futuro, emigrano dalla Siria, dalla Turchia,
dall’Iraq, dalla Giordania. La Chiesa più di una volta ha denunciato la drammatica
emigrazione dei cristiani dal Medio Oriente, più di una volta ne ha parlato come di
una grande sfida. Certo, dall’Iraq emigrano più cristiani che altrove. Chi lascia
il Kurdistan non è perché vive male, ma per questo senso di instabilità che attraversa
tutta la regione. Anche perché sappiamo che qualsiasi cosa accadrà in Siria riguarderà
tutti, non è un segreto. I cristiani me lo ripetono: siamo stanchi, ne abbiamo abbastanza
di tutti questi cambiamenti. Per loro, questi cambiamenti sono forzati, li subiscono,
non sono una scelta.
D. - Quanto è difficile per lei, arcivescovo di Erbil,
svolgere il suo ministero qui?
R. - I worked in Baghdad, I’ve seen the violence... Ho
vissuto a Baghdad, sono nato lì, ho visto la violenza, i miei parrocchiani erano tremila
famiglie, dopo il 2005 è iniziato l’esodo. Alla fine del 2006, erano scesi a mille
famiglie, oggi sono ancora di meno. E’ difficile assistere a tutto questo, assistere
alle Messe senza fedeli, al catechismo senza ragazzi, alla chiusura delle Chiese alle
sei del pomeriggio, all’eliminazione di qualsiasi attività pastorale... In un certo
modo, vedi la tua Chiesa morire e non ti resta che accettare la realtà e restare al
tuo posto. Nel 2010, sono stato nominato vescovo di Erbil. A Baghdad e a Mossul chiudevano
le chiese, io qui dovevo aprirne delle nuove. Fino ad oggi, non siamo riusciti a costruirne
neanche una per mancanza di soldi, su di noi pesa persino la crisi economica in Europa.
Speriamo per il prossimo anno se ne possa finire almeno una, per 1.200 famiglie che
oggi non hanno una parrocchia. A volte mi dico: trent’anni fa a Baghdad sono state
costruite chiese che oggi sono quasi vuote e mi chiedo cosa ne sarà tra trent’anni
di un complesso costruito qui e per il quale magari sono stati spesi tre milioni di
dollari. Dobbiamo ripetere la stessa esperienza di Baghdad e Mossul? Guardare svuotarsi
le nostre chiese? E’ anche vero che quest’anno il governo regionale del Kurdistan
ha accettato di finanziare la costruzione di una chiesa a Ankawa, in un distretto
dove vivono mille famiglie cristiane. Per luglio, forse, inizieranno i lavori. Quindi,
posso dire che se da una parte il nostro paese presenta un’immagine triste, dall’altra
ci sono anche buone notizie.
D. - E quanto è difficile la convivenza con la
maggioranza musulmana?
R. - Usually it's not hard, we have a dialogue of living… Devo
dire che non è difficile, in Iraq come qui in Kurdistan, c’è un rapporto quotidiano,
abbiamo vissuto insieme per secoli. Naturalmente, in questa situazione di caos e di
precarietà, successiva al 2003, ci sono gruppi che hanno attaccato i cristiani: per
ragioni politiche, economiche e sociali. Certo, non possiamo ignorare che c’è chi
ha perseguitato i cristiani in quanto tali. Per quanto mi riguarda con la comunità
islamica di qui ho ottimi rapporti, partecipo in moschea ai loro eventi, e stessa
cosa fanno loro, per Natale, per Pasqua. L’Iraq è una maggioranza di minoranze. Ci
sono le tribù, le ideologie, i partiti, qualsiasi governo al potere deve avere come
obiettivo il mantenimento del dialogo tra le differenti comunità. Qui, in Kurdistan,
hanno una strategia in questo senso, incoraggiano il dialogo e la tolleranza, sia
a parole che con i fatti. Da parte mia, io sollecito i Paesi europei e le istituzioni
europee a tenere alta l’attenzione sui cristiani del Medio Oriente: c’è bisogno della
diversità in questa area, e non perché noi cristiani siamo storicamente qui, ma perché
un Medio Oriente fatto di una o due comunità sarebbe un disastro. Io incoraggio l’Europa
a impegnarsi fortemente per il Medio Oriente, non soltanto a parole durante circostanze
ufficiali. Il Medio Oriente deve entrare nella loro agenda. Ci sono comunità che sono
andate via, che stanno diminuendo sempre più, sarebbe troppo duro accettare una totale
evacuazione dal Medio Oriente.